di Antonio Laurino, M.llo G.d.F. di Catania
(4° ed ultima parte – Seguito dal n. 3 di ottobre-dicembre 2007)
RIFLESSIONI SULLE FATTISPECIE DISCIPLINARMENTE RILEVANTI DELLA “GRAVE VIOLAZIONE DI LEGGE”, DEL “TRAVISAMENTO DEI FATTI”, DEL “DIFETTO DI MOTIVAZIONE”, DELL’ERRORE MACROSCOPICO”. “IL CANONE ERMENEUTICO DELL’INTERPRETAZIONE LETTERALE DELLE NORME, QUALE LIMITE NORMATIVO CATEGORICO, RISPETTO AD UNA DISINVOLTA E CREATIVA ATTIVITA’ INTERPRETATIVA”.
Interessante per l’argomento trattato in questa sede è il seguente articolato del Decreto 109 / 2006:
art. 1 comma 1 “” Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni “” ;
art. 1 comma 3 “Le violazioni dei doveri di cui ai commi 1 e 2 costituiscono illecito disciplinare perseguibile nelle ipotesi previste agli articoli 2, 3 e 4”;
art. 2 comma 1 lettera g “Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni:
… la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”;
art. 2 comma 1 lettera h “Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni:
… il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile “” ;
art.2 comma 1 lettera l “” Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni:
… l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza l’indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge “” ;
art.2 comma 1 lettera ff “” Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni:
… l’adozione di provvedimenti al di fuori di ogni previsione processuale, ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza … “”;
art.2 comma 2 “” Fermo restando quanto previsto dal comma 1, lettere g, h, i, l, m, n, o, p, cc, ed ff, l’attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all’art.12 delle disposizioni sulla legge in generale non dà mai luogo a responsabilità disciplinare “”.
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17. L’ERRORE DI FATTO O TRAVISAMENTO DEI FATTI NEI PROVVEDIMENTI GIUDIZIARI E GIURISDIZIONALI. CONSIDERAZIONI SULLA SUA CONFIGURABILITA’, ED EVIDENTE SUSSUMIBILITÀ DEL VIZIO NELLA FATTISPECIE CONTEMPLATA DALL’ART. 2 C. 1 LETT. H) DEL DLGS 23 FEBBRAIO 2006 NR.109.
CASISTICA SULLA CONFIGURABILITA’ DELL’ERRORE DI FATTO.
L’OMESSO ESAME DI MOTIVI DI IMPUGNATIVA, QUALE UNA DELLE FATTISPECIE INTEGRATRICI DELL’ ERRORE DI FATTO E DEL VIZIO REVOCATORIO, SECONDO L’ADUNANZA PLENARIA 3 / 1997, LA IV E V SEZ. DEL CONSIGLIO DI STATO ED IL CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIA.
PACIFICA ESTENSIONE DELL’ENUNCIATO AL DIRITTO CIVILE E PENALE.
E’ noto che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la Decisione 22 gennaio 1997 nr.3, in “”Foro Italiano””, 1997, III, 388, ed in “”Consiglio di Stato””, 1997, I, 103 e segg., ha proclamato che:
“” Sebbene l’omissione di pronuncia su domande o eccezioni delle parti costituisce, di per sé, violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunziato, di cui all’art.112 C.p.c., o comunque difetto di motivazione, essa non elimina la rilevanza del processo causale che ha determinato l’evento omissivo e non esclude che l’omissione di pronuncia possa essere fatta valere non ex se, ma come risultato di un vizio della formazione di giudizio, quale (oltre al dolo del giudice) l’errore di fatto revocatorio. Infatti, nel caso della omessa pronuncia, errore revocatorio e violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato non sono in relazione di alternatività, ma il primo è possibile fonte della seconda.
Pertanto, l’errore di fatto revocatorio può essere configurabile anche quando cade sull’esistenza O SUL CONTENUTO DI ATTI PROCESSUALI E DETERMINI UNA OMISSIONE DI PRONUNCIA, purché esso sia identificabile attraverso la motivazione della sentenza””
Ancora più significativo risulta il seguente passaggio motivazionale: “”l’omessa pronuncia può essere determinata non necessariamente da un’improbabile ignoranza da parte del giudice del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato, ma da un più verosimile difetto di motivazione della sentenza, nei casi in cui le domande o eccezioni siano state volutamente disattese, ma ne sia mancata l’enunciazione delle ragioni. Emerge in tal modo la diade: difetto di motivazione – errore di fatto revocatorio. Ai sensi dell’art.395 n.4) cod. proc. civ., infatti, sussiste errore di fatto quando è supposto un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa ovvero l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita; tale supposizione, però, perché l’errore possa essere riconosciuto con sicurezza, non può essere implicita, ma deve essere espressa. L’errore di fatto, insomma, consiste in una divergenza tra la realtà processuale e ciò che risulta espressamente dalla sentenza. La motivazione è il criterio formale di emersione dell’errore di fatto ed il crinale che separa errore di fatto e difetto di motivazione; come è stato detto efficacemente, <> (Ad. Plen., 30 luglio 1980 nr.36)””.
Chiarissimo e lineare è il ragionamento seguito dal più autorevole Giudice Amministrativo.
L’omessa pronunzia su motivi di ricorso può essere determinata solo da due ipotesi:
DOLO – o il giudice, pur conoscendo il suo dovere primario di pronunziarsi su tutto l’ambito della domanda (e quindi, su tutto l’integrale ambito della causa pretendi, che del petitum costituisce la giustificazione argomentativa inscindibilmente presupposta) ha deliberatamente voluto trascurare il punto controverso, o il motivo di ricorso, o la prova documentale, o la prova testimoniale, e così via, e quindi non si deve parlare neppure di errore di fatto revocatorio, ma direttamente di vero e proprio dolo, meritevole oltre che della sanzione disciplinare e civile, anche (se non soprattutto dell’ancora più dissuasiva) della sanzione penale sub specie di abuso d’ufficio e / o rifiuto e / o omissione in atti d’ufficio, dovuti per elementari “”motivi di giustizia”” ;
ERRORE DI FATTO – oppure il giudice (continuando a dare per scontata la conoscenza, da parte sua, del dovere primario di pronunziarsi su tutto l’ambito della domanda e della causa pretendi – id est, motivi di ricorso e relativi argomenti a sostegno) incorre nell’errore di assunzione nell’intelletto del fatto, e quindi presume come inesistente (non per dolo) l’esistenza e / o il contenuto di atti processuali intesi nel loro inequivocabile significato letterale e logico, immediatamente e facilmente percepibili senza indagini ermeneutiche ma con il solo ausilio della mera lettura; ed anche in questo caso sono profilabili responsabilità disciplinari ed addirittura civili, nella misura in cui (come si specificherà innanzi) tale “”travisamento di fatto”” sia dovuto a “”negligenza inescusabile””.
Nella menzionata Decisione, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato aderisce all’indirizzo giurisprudenziale rappresentato dalle seguenti Decisioni:
Consiglio di Stato, IV Sez., 7 luglio 1965 nr.525;
Sez.V, 20 febbraio 1984 nr.138;
Consiglio di Stato, Sez. V, 5 febbraio 1985 nr.66;
Cons. Giust. Amm. 25 febbraio 1994 nr.54;
Corte di Cassazione, 5 marzo 1982 nr.1390;
Corte di Cassazione 4 giugno 1992 nr.6876;
Corte di Cassazione 30 marzo 1994 nr.3137.
La giurisprudenza amministrativa delle Sezioni del Supremo Consesso Amministrativo, successiva all’appena integralmente trascritta Adunanza Plenaria nr.3 / 1997, riassumibile nelle Decisioni VI Sez., 6 settembre 2000 nr. 4675 e IV Sez., 13 dicembre 1999 nr.1834, quest’ultima in “”Foro Amm.””, 1999, 2416 ed anche in “”CDS””, 1999, I, 2052; IV Sez. 17 settembre 2002 nr.4679, in “”Foro Amministrativo – CDS””, 2002, 2008, nonché l’orientamento costante del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia (Cfr. la già citata Decisione 25 febbraio 1994 nr.54, in“”CDS””, 1994, I, 259 presente anche in “”Giurisprudenza Amministrativa Siciliana””, 1994, 27; fino ad arrivare alla recente 2 maggio 2003 nr.178, pubblicata integralmente non solo in “”Foro Amm. – CDS””, 2003, 2654, ma anche, nella massima, in “”La Settimana Giuridica””, 2003, 383) sono tetragoni nel sostenere che:
“”L’omesso esame di un motivo di ricorso può dare ingresso al giudizio di revocazione della sentenza, quando costituisce errore di fatto di tipo revocatorio e non già errore di diritto, anche quando cade sull’esistenza o sul contenuto di atti processuali e determina un’omissione di pronuncia, purché essa sia identificabile attraverso la motivazione della sentenza””.
Ancora più significativamente la Decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa 2 maggio 2003 nr.178 citata, che recita:
“”Il mancato esame si correla dunque ad una errata percezione degli atti di causa, in quanto afferma un fatto (mancata enunciazione del motivo nel ricorso di primo grado) contraddetto dalla documentazione depositata in giudizio””.
Ovviamente, non è seriamente discutibile che il concetto di errore di fatto, per come desumibile da questa giurisprudenza (ancorché amministrativa) sia sicuramente estensibile al concetto di errore di fatto nel diritto processuale civile o penale, perché unica è sua la definizione,a prescindere dall’ambito del diritto in cui se ne deve riscontrare la fattispecie integratrice.
Precisato ciò, si deve quindi aggiungere che, negli ultimi tempi, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e della Corte Suprema Civile di Cassazione (le tre giurisdizioni maggiormente interessate a statuizioni su pretesi errori di fatto) si è definitivamente assestata su queste precise massime, arricchendosi di numerose e significative pronunzie.
Sull’errore di fatto rappresentato da “”omessa pronunzia su motivi di ricorso, o sull’incontestabile contenuto letterale di documenti e testimonianze“”, infatti, si registrano:
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, 18 aprile 2006 nr.147, in “”Rassegna Amministrativa Siciliana””, fasc. 2 / 2006, 460;
Consiglio di Stato IV Sez., 3 marzo 2006 nr.1040, in “”Giurisdizione Amministrativa””, fasc.3 / 2006, I, 367, ed integralmente in www.giustamm.it nr.4 / 2006, con commento di F. Gambardella;
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, 19 ottobre 2005 nr.692, in “”Rassegna Amministrativa Siciliana””, fasc. 4 / 2005, 1466;
Corte dei Conti, Sez. I Centrale 7 giugno 2005 nr.191 / A, in “”Giornale di Diritto Amministrativo””, fasc.11 / 2005, 1220, ed in “”Diritto e Giustizia””, fasc.32 / 2005, 89 (fattispecie di mancata percezione di documento decisivo);
testualmente da “”Giornale di Diritto Amministrativo””:
“”E’ passibile di revocazione la sentenza di appello che, sulla base di un’ammessa conoscenza dei fenomeni di corruzione, ha ritenuto corresponsabile del danno provocato da uno specifico contratto un personaggio definito estraneo alla procedura contrattuale, non prendendo in considerazione contrarie risultanze processuali“”;
testualmente da “”Diritto e Giustizia””:
“” L’errore di fatto revocatorio è configurabile anche con riguardo alla mancata lettura di deposizioni raccolte, ovvero all’erronea percezione del loro incontestabile significato letterale e logico da parte del giudice. Nella specie è stato omesso di considerare una deposizione testimoniale in atti.””
Consiglio di Stato V Sez., 4 maggio 2005 nr.2159, in “”CDS””, 2005, I, 867, “”Foro Amministrativo – Cds.””, 2005, 1459;
Consiglio di Stato IV Sez., 13 aprile 2005 nr.1735, in “”Foro Amministrativo – Cds.””, 2005, 1087;
Consiglio di Stato V Sez., 16 marzo 2005 nr.1077, integralmente in www.lexitalia.it nr. 3 / 2005, che ha sancito l’errore di fatto revocatorio non solo per “”omissione di pronunzia derivante da errore di fatto sull’esistenza o sul contenuto di atti processuali””, ma anche nel caso di “”mancato esame da parte del giudice dell’appello di censure dichiarate assorbite ed espressamente e puntualmente reiterate con la memoria di costituzione depositata dall’appellato, vittorioso in primo grado””;
Consiglio di Stato V Sez., 8 febbraio 2005 nr.349, integralmente in www.lexitalia.it nr. 2 / 2005;
Consiglio di Stato IV Sez., 27 dicembre 2004 nr.8203, integralmente in www.lexitalia.it nr. 1 / 2005,
Consiglio di Stato IV Sez., 22 ottobre 2004 nr.6952, in “”CDS””, 2004, I, nonché in “”La Settimana Giuridica””, 2004, I, 735;
Consiglio di Stato V Sez., 20 ottobre 2004 nr.6855, per esteso in “”CDS””, 2004, I, 2191, nonché in “”La Settimana Giuridica””, 2004, I, 722;
Consiglio di Stato IV Sez., 31 agosto 2004 nr.4122, in “”CDS””, 2004, I, 1710;
Consiglio di Stato IV Sez., 26 luglio 2004 nr.5292, per esteso in “”Foro Amm. – CDS””, 2004, 2134, nonché in “”CDS””, 2004, I, 1601; nonché in “”La Settimana Giuridica””, 2004, I, 539;
Nella pronunzia 26 luglio 2004 nr.5292 si menzionano, ad ennesima conferma:
i. Consiglio di Stato VI Sez., 5 agosto 2003 nr.4459, in “”CDS””, 2003, I, 1682.
ii. Consiglio di Stato VI Sez., 21 marzo 2000 nr.1545, in “”CDS””, 2000, I, 644;
iii. Consiglio di Stato VI Sez. 6 settembre 2000 nr.4675, in “”CDS””, 2000, I, 1978.
Corte dei Conti, Sez. II Centrale 25 marzo 2004, integralmente in “”Rivista della Corte dei Conti””, fasc. 2 / 2004, pagg.148 – 150 (fattispecie di mancata percezione di documento decisivo);
Consiglio di Stato V Sez., 18 marzo 2004 nr.1427, integralmente in www.lexitalia.it nr. 3 / 2004, che ha sancito l’errore di fatto revocatorio non solo per “”omissione di pronunzia derivante da errore di fatto sull’esistenza o sul contenuto di atti processuali””, ma anche nel caso di “”mancato esame da parte del giudice dell’appello di censure dichiarate assorbite ed espressamente e puntualmente reiterate con la memoria di costituzione depositata dall’appellato, vittorioso in primo grado””;
Corte dei Conti, Sez. Giur. Toscana 5 marzo 2004, in “”Rivista della Corte dei Conti””, fasc. 2 / 2004, 264 (fattispecie di omessa valutazione di certificato medico);
Consiglio di Stato IV Sez., 4 febbraio 2004 nr.388, in “”Foro Amministrativo – CDS””, 2004, 380;
Cassazione Civile, Sez. III, 25 giugno 2003 nr.10127, in “”La Settimana Giuridica””, 2003, 1555:
“”In tema di impugnazioni civili, l’errore nella percezione del significato letterale e logico di una deposizione testimoniale non attiene all’interpretazione e valutazione della prova e non dà luogo, quindi, al vizio di omessa o contraddittoria motivazione della sentenza, ma ad un errore di fatto che, a norma dell’art.395 nr.4 C.P.C., consente solo l’impugnazione per revocazione””;
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, 2 maggio 2003 nr.178, in “”La Settimana Giuridica””, 2003, I, 383;
Consiglio di Stato V Sez., 7 aprile 2003 nr.1839, integralmente in www.lexitalia.it nr. 4 / 2003;
Consiglio di Stato VI Sez., 13 novembre 2001 nr.5813, in “”CDS””, 2001, I, 2471;
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, 4 ottobre 2000 nr.414, in “”Rassegna Amministrativa Siciliana””, fasc. 4 / 2000, 746 – 747;
Consiglio di Stato IV Sez., 13 dicembre 1999 nr.1834, in “”CDS””, 1999, I, 2052;
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, 25 febbraio 1994 nr.54, in “”CDS””, 1994, I, 259;
Cassazione Civile 7679 / 1986, richiamata adesivamente dalla Sentenza della III Sezione Centrale d’Appello della Corte dei Conti 7 giugno 2005 nr.191 / A (già citata al precedente nr.04):
“”L’errore di fatto nell’esame delle prove testimoniali è configurabile soltanto limitatamente all’attività preliminare della lettura delle deposizioni raccolte e della percezione del loro incontestabile significato letterale e logico da parte del giudice, e non pure in relazione all’attività successiva dello stesso, consistente nell’interpretazione e valutazione del contenuto delle deposizioni testimoniali, ai fini della formazione del libero convincimento””.
Sulla pacifica configurabilità dell’errore di fatto nelle sue varie forme e casistiche, pertanto, veramente non possono residuare ragionevoli dubbi, almeno nell’ambito di una discussione che voglia rimanere nell’ambito della serietà.
Invece, con riferimento alla chiara valenza del vizio sub specie di responsabilità disciplinare e civile del magistrato che ne è l’artefice, sia ex art. 2 lettere b) e c) della legge 117 / 1988, sia (ed al contempo) ai sensi dell’art.2 comma 1 lettera i) del Decreto Legislativo 109 / 2006, , si rappresenta quanto segue.
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18. CHIARA SUSSUMIBILITÀ DEL VIZIO DELL’ERRORE (ALTRIMENTI ANCHE DETTO TRAVISAMENTO) DI FATTO NELLA FATTISPECIE CONTEMPLATA DALL’ART.2 CO.1 LETTERA H) DEL DECRETO LEGISLATIVO 23 FEBBRAIO 2006 NR.109.
L’art.2 comma 1 lettera h del Decreto Legislativo 109 / 2006 stabilisce che “” Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni: lettera i)… il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile “”.
La giurisprudenza, con specifico riferimento alla responsabilità civile (e quindi, a fortori, anche con riferimento a quella disciplinare) ha affermato la sussistenza di un così grave errore in questi termini restrittivi, che ora vanno necessariamente rimeditati alla luce del novellato diritto positivo:
L’errore fattuale che dà luogo a responsabilità civile del giudice, tanto nella sua errata affermazione quanto nella sua errata negazione, deve dipendere non già da un grado insufficiente di diligenza impiegato nell’attività accertativa e valutativa, quanto proprio dall’ assenza totale di ogni analisi degli atti del procedimento dai quali risulti incontestabilmente l’insussistenza o la sussistenza del fatto rispettivamente affermato o negato; ne segue che non può ravvisarsi errore rilevante ai sensi delle lett. b) e c) dell’art. 2 l. 13 aprile 1988 n. 117 nelle ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, che però abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti, nè può qualificarsi come rilevante l’errore riscontrato “a posteriori” dal giudice del gravame sulla base del controllo esercitato sull’attività valutativa.
Cass. civ., Sez. I, 20/09/2001, n.11859
PARTI IN CAUSA: Vitalone C. Pres. Cons.
FONTE: Foro It., 2001, I, 3357, nota di SCARSELLI.
Gli errori di fatto ed i travisamenti di fatto sono causa di responsabilità civile del magistrato se puramente percettivi; non così se derivanti da attività di interpretazione di quel fatto che si pretende travisato, secondo Corte di Cassazione, I Sezione Civile, Sentenza 9 settembre 1995 nr.9.511, ricorrente Lugaro contro Presidenza del Consiglio dei Ministri, integralmente pubblicata nella rivista giuridica “”Danno e Responsabilità””, fasc.3 / 1996, pagg.333 – 334.
Negli stessi termini, Rassegna di giurisprudenza <>, in “”Responsabilità Civile e Previdenza””, 2004,690.
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19. IL DIFETTO ASSOLUTO DI MOTIVAZIONE, LA MOTIVAZIONE APPARENTE, LA MOTIVAZIONE AVULSA DAL CONTESTO DI FATTO E DI DIRITTO PECULIARE ALLA FATTISPECIE CONTROVERSA, L’OMISSIONE DI GIUDIZIO SU QUESTIONI DECISIVE NEI PROVVEDIMENTI GIUDIZIARI E GIURISDIZIONALI.
CONSIDERAZIONI SULLA CONFIGURABILITA’ ED EVIDENTE SUSSUMIBILITÀ DEI VIZI NELLA FATTISPECIE CONTEMPLATA DALL’ART.2 CO.1 LETTERE G), L), ED ANCHE FF) DEL DECRETO LEGISLATIVO 23 FEBBRAIO 2006 NR.109.
CASISTICA SULLA CONFIGURABILITA’ DEL VIZIO DI OMESSA E / O APPARENTE MOTIVAZIONE.
Copiosissima ed infinita è la giurisprudenza di legittimità che ha plasmato il concetto del vizio di motivazione e di motivazione apparente del provvedimento giudiziario e giurisdizionale.
Queste le massime proclamate da una pluridecennale giurisprudenza nomofilattica (vincolante anche ai sensi dell’art.65 della legge di ordinamento giudiziario):
Il vizio di omessa motivazione può manifestarsi o come difetto assoluto di motivazione oppure come motivazione apparente e ricorre, rispettivamente, quando il giudice di merito o omette di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica questi elementi ma senza un’approfondita disamina logica e giuridica.
Il vizio di motivazione di cui all’art. 606 c.p.p. sussiste allorchè ci si sia limitati a indicare la fonte di prova della colpevolezza dell’imputato, ma non risultino indicati nè valutati i concreti elementi probatori raccolti dall’organo di polizia giudiziaria, sui quali, una volta acquisiti al processo, doveva esercitarsi la valutazione critica del giudice. In tal caso la motivazione deve considerarsi solo apparente.
Il vizio di motivazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p. – che si verifica nel caso in cui sia del tutto inesistente la motivazione del provvedimento gravato oppure sia meramente apparente quella risultante dal testo dello stesso – non si concretizza allorquando il giudice, pur facendo proprie le considerazioni svolte da quello di prime cure, abbia compiutamente esaminato le censure rivolte dall’appellante alla sentenza di primo grado, in quanto le due sentenze di merito possono avere i medesimi contenuti di giudizio e l’obbligo motivazionale imposto al giudice risulta soddisfatto con il completo esame delle argomentazioni proposte dall’appellante.
Il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunciabile in cassazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. ricorre, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica questi elementi ma senza una approfondita disamina logica e giuridica, e non nel caso di valutazione delle circostanze probatorie in senso difforme da quello preteso dalla parte.
Il vizio di motivazione apparente del provvedimento va ravvisato quando la motivazione, formalmente esistente, sia del tutto avulsa o dissociata dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa dell’assunto, vale a dire in tutti i casi nei quali il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente.
Si sottrae all’obbligo della motivazione o vi fa fronte in modo solo apparente il giudice del merito che apoditticamente nega sia stata data la prova di un fatto posto a fondamento della domanda, omettendo, quando vi sia stato il richiamo a prove testimoniali, di evidenziarne il contenuto e senza spiegare le ragioni della loro non decisività, in tal modo venendo meno la possibilità di verificare l’esattezza o meno dell’iter logico della decisione.
Il vizio di motivazione apparente della sentenza, che va ricompreso nel più generale concetto dell’assenza di motivazione, di cui costituisce un aspetto particolare e limitato, ricorre quando la motivazione è costituita da una struttura argomentativa caratterizzata da osservazioni apodittiche o da formule di stile, prive di concreti riferimenti alla realtà processuale e alle emergenze che della stessa indichino la sua valenza storica prima che giuridica, così da fornire solo un simulacro di motivazione.
Il vizio della sentenza, concernente la mancanza di motivazione, comprende non solo i casi in cui il giudice abbia omesso di indicare gli elementi dai quali ha tratto il suo convincimento ma anche quando si sia limitato ad un esame sommario e superficiale degli elementi senza una approfondita disamina logico-giuridica, c. d. motivazione apparente, oppure quando abbia omesso di valutare elementi di decisiva importanza.
Il vizio di motivazione apparente sussiste allorché la motivazione formalmente esistente, sia del tutto dissociata dalle risultanze del processo e si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa dell’assunto e quindi in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente.
La motivazione apparente della sentenza penale è quella che o non trova sostegno in dati processuali, recependo, invece, le impressioni o le supposizioni del giudice, o non consente di comprendere l’iter che ha condotto al convincimento formale, oppure trascura risultanze o aspetti critici di rilevanza decisiva.
Ricorre l’ipotesi della cosiddetta motivazione apparente quando il giudice si è limitato ad un esame sommario e superficiale degli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento senza una approfondita disamina logico-giuridica.
E’ apparente la motivazione della sentenza che vive delle impressioni e delle supposizioni del giudice, non sorretta da dati processuali.
Si ha motivazione apparente, quando il giudice abbia superficialmente e sommariamente apprezzato le risultante processuali poste a base del suo convincimento, trascurando un’approfondita disamina della stessa, ipoteticamente idonea a condurre a diverse conclusioni.
E’ apparente la motivazione della sentenza che interpreta, singolarmente e non in visione organica, i dati offerti dal processo, cogliendo disarmonie in ognuno di essi che, invece, scompaiono all’esame unitario.
Perché possa riscontrarsi nella sentenza il vizio della cosiddetta motivazione apparente è necessario che il giudice di merito abbia valutato solo alcune tra le risultanze del processo, trascurandone altre che, se tenute presenti, lo avrebbero portato a una diversa soluzione.
Secondo l’orientamento di:
Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, cc. 29 maggio – dep. 10 giugno 2003 nr.25.080, Pellegrino, R.V. 224.611, ed anche in “”Arch. Nuova Proc. Pen., 01/2004, 106; Sez. VI Pen., 18 ottobre 1999, n. 3265, Albanese, in “”Cass. Pen.””, 2001, 239; di nuovo Sezioni Unite Penali, 21 giugno 2000, n. 17, Primavera e altro, in “”Cass. Pen.””, 2001, 69; Sez. I Pen., 7 dicembre 1999, n. 6972, Alberti, in “”Cass. Pen.””, 2001, 218; Sez. Lav., 14 aprile 2000, n. 4891, Conti c. Soc. Vetreria Vas.; Sez. III, 30 aprile 1998, n. 7134, Campione, in “”Cass. Pen.””, 1999, 2951; Sez. I, 13 novembre 1997, n. 707, Ingardia, in “”Cass. Pen.””, 1998, 3305; Cass. Civ., Sez. II, 24 febbraio 1995, n. 2114, Di Chiara c. Tecnimpianti, in “”Mass. UTET””, 1995; Cass. Pen., Sez. I, 8 febbraio 1993, Maiale e altro, in “”Mass. Pen. Cass.””, 1993, fasc. 6, 94; Cass. Civ., Sezioni Unite Civili, 15 giugno 1991, n. 6794, Cassa risp. Rimini c. Brandina, in “”Giur. It.””, 1992, I, 1, 499; Cass. Civ., 13 giugno 1991, n. 6702, Fallimento Piazza c. La Logge S. Michele, in “”Mass.””, 1991; Cass. Pen., 23 gennaio 1990, Del Miglio, in “”Riv. Pen.””, 1991, 764; Cass. Pen., 12 dicembre 1988, Carapezza, in “”Riv. Pen.””, 1990, 138; Cass. Pen., 11 luglio 1988, Cannella, in “”Riv. Pen.””, 1989, 636; Cass. Pen., 20 novembre 1987, Mucchetto, in “”Arch. Giur. Circolaz.””, 1988, 826; Cass. Pen., 20 gennaio 1986, Giannella, in “”Riv. Pen.””, 1987, 379; Cass. Pen., 24 settembre 1984, Butini, in “”Riv. Pen.””, 1986, 120; Cass. Pen., 24 aprile 1985, Mandelli, in “”Riv. Pen.””, 1986, 40; Cass. Pen., 21 gennaio 1984, Manni, in “”Arch. Giur. Circolaz.””, 1984, 504; “”Riv. Pen.””, 1984, 785 e “”Riv. Pen.””, 1984, 952; Cass. Pen., 13 aprile 1984, Pinto, in “”Riv. Pen.””, 1985, 615; Cass. Pen., 18 maggio 1984, Falcone, in “”Riv. Pen.””, 1985, 219; Cass. Pen., 19 giugno 1984, Casorio, in “”Riv. Pen.””, 1985, 746; Cass. Pen., 29 aprile 1983, Mucci, in “”Riv. Pen.””, 1984, 554; Cass. Pen., 30 maggio 1983, Todisco, in “”Riv. Pen.””, 1984, 459; Cass. Pen., 26 maggio 1981, Basso, in “”Giust. Pen.””, 1983, II, 16; Cass. Pen., 29 marzo 1982, Comandatore, in “”Riv. Pen.””, 1983, 349; Cass. Pen., 2 aprile 1982, Manuele, in “”Riv. Pen.””, 1983, 732; Cass. Pen., 14 aprile 1982, Staffolani, in “”Riv. Pen.””, 1983, 540; Cass. Pen., 20 aprile 1982, Sebasti, in “”Riv. Pen.””, 1983, 269; Cass. Pen., 9 dicembre 1980, Bellantoni, in “”Riv. Pen.””, 1981, 842; Cass. Pen., 5 maggio 1981, Broccagni, in “”Riv. Pen.””, 1982, 541; Cass. Pen., 15 luglio 1981, Pedalini, in “”Riv. Pen.””, 1982, 749; Cass. Pen., 6 marzo 1980, Concutelli, in “”Riv. Pen.””, 1980, 989.
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20. ENNESIMA CONFERMA DA PARTE DELLA CORTE DI CASSAZIONE PENALE.
SANZIONE DELLA NULLITA’ EX ART.178 LETT. C C.P.P. PER IL PROVVEDIMENTO GIURISDIZIONALE PENALE PRETERMISSIVO DELLE ARGOMENTAZIONI DELLE PARTI.
La recentissima Sentenza della I Sezione Penale 12 dicembre 2005 nr.45.104, Ric. Runfolo, integralmente pubblicata sul quotidiano giuridico telematico www.dirittoegiustizia.it del 13 gennaio 2006, costituisce l’ennesima conferma alle nostre tesi, da parte addirittura del Giudice di legittimità.
La pronunzia si occupa specificatamente del tema dell’omessa valutazione della memoria difensiva, resa al giudice ai sensi dell’art.121 C.P.P..
I principi di diritto autorevolmente proclamati possono compendiarsi per come segue:
“” L’articolo 121 C.P.P. rientra tra le disposizioni volte a dare attuazione alla direttiva nr.3 dell’articolo 2 della Legge 81 / 87, che afferma il principio della parità tra accusa e difesa e sancisce l’obbligo del giudice di provvedere senza ritardo e, comunque, entro i termini stabiliti sulle richieste formulate in ogni stato e grado del procedimento dal PM, dalle altre parti private e dai difensori. “”.“” Il Giudice, al quale viene presentata una memoria o un’istanza, deve prendere in considerazione il contenuto delle memorie e assumerlo a tema d’indagine, facendolo quindi oggetto della formulazione del proprio giudizio. L’inosservanza di un siffatto dovere si profilerebbe sotto le spoglie della violazione delle regole che presiedono alla motivazione delle decisioni giudiziarie, nonché sotto quello dell’integrazione di una nullità ai sensi dell’articolo 178 Lettera b e c CPP, generalmente comportando la lesione dei diritti di partecipazione del PM e, rispettivamente, di intervento o assistenza difensiva dell’imputato e delle altre parti private. – . “”.
“” Negare tali conseguenze, invero, significherebbe ridurre le parti alla situazione di comparse eventuali, disconoscendone la funzione di protagonisti della dialettica processuale . “”.
“” Il Giudice ha l’obbligo di provvedere e di motivare su quanto gli è stato richiesto o esposto. Tale obbligo deriva dal principio generale secondo cui le esigenze di giustizia impongono il vaglio di tutte le ragioni delle parti e l’espletamento di tutte le prove . “”.
“” Il rigetto immotivato dell’istanza di acquisizione e valutazione di una memoria o istanza difensiva costituisce violazione dell’articolo 121 C.P.P. e determina la nullità di ordine generale prevista dall’articolo 178 lettera C C.P.P., in quanto l’omesso e ingiustificato esame delle deduzioni difensive impedisce all’imputato di intervenire (ovviamente, lo stesso discorso deve essere fatto per la persona offesa, contemplata sia dall’art.121 C.P.P. in argomento, sia ancora di più dalle Direttive nr. 3, 50 e 51 della Legge – Delega 81 / 1987) “” La peculiarità dell’articolo 121 comma 2 C.P.P. consiste, quindi, nello stabilire come immediata l’insorgenza del dovere di provvedere da parte del giudice, e nel definire l’ampiezza dello spatium deliberandi concesso prima di far scattare il meccanismo che tramuti tale dovere in obbligo di pronunciarsi su domande determinate delle parti . “”.
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21. CONSIDERAZIONI SULLA CONFIGURABILITA’ ED EVIDENTE SUSSUMIBILITÀ DEL VIZIO DI OMESSA OD APPARENTE MOTIVAZIONE, NELLA FATTISPECIE CONTEMPLATA DALL’ART.2 CO.1 LETTERE G), L), ED ANCHE FF) DEL DECRETO LEGISLATIVO 23 FEBBRAIO 2006 NR.109.
Come è stato già accennato, l’art.2 comma 1 lettera l) del più volte nominato Decreto Legislativo 109 / 2006 prescrive molto chiaramente ed ineludibilmente che:
“” Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni:… l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza l’indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge “” .
Dal tenore letterale della menzionata norma risulta evidente che occorre molto meno, rispetto all’ipotesi dell’errore di fatto che si dovuto a “”negligenza inescusabile””, per configurare una responsabilità disciplinare dovuta al vizio del difetto di motivazione, o motivazione soltanto “”apparente”” (per come sopra plurimamente definita). In questo secondo caso, ad abundantiam, non solo ci sarà responsabilità disciplinare ai sensi della lettera l), ma anche (come nel caso di esercizio della giurisdizione penale o penale / militare) per la violazione della generale norma di legge che impone ai magistrati l’osservanza delle norme processuali anche quando ciò non sia imposto a pena di sanzioni processuali (quali la nullità, annullabilità, invalidità, etc.) come (ad esempio) l’art.124 C.P.P., cui rinvia l’art.296 C.P.M.P..E vi sarà anche (sempre nel campo del diritto processuale penale) l’ulteriore violazione di legge, con riferimento (del tutto esemplificativo) agli artt. 125 co.3, 127 co.7, 132, 178 lettere b) e c), 181, 244, 247, 253, 267, 321, 409 co.1, 410 co.2, 414, 426 lettera d), 546 co. 1 lettera e), 617 co.1 del Codice di Procedura Penale, nelle varie parti in cui impongono al giudice l’obbligo di una esternazione che sia
congrua e pertinente non solo con i dati desumibili dal procedimento / processo, ma soprattutto con le argomentazioni dialetticamente rese dalle parti pubbliche e private.
La dimostrazione del vizio di motivazione è relativamente semplice, così come l’errore di fatto. Basta confrontare il contenuto argomentativo del provvedimento giudiziario con le risultanze in atti e le argomentazioni delle parti, per inferire se ed in che misura i predetti elementi sono stati valutati e / o confutati (difetto di motivazione), o se le eventuali confutazioni siano congrue e pertinenti con i singoli argomenti e / o censure addotti dalle parti pubbliche e / o private (motivazione apparente).
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22. ASPETTI PARTICOLARI DEL VIZIO DI OMESSA OD APPARENTE MOTIVAZIONE.
L’OMESSA CONSIDERAZIONE DI MASSIME DI COMUNE ESPERIENZA.
Secondo la recente Cassazione Penale Sez. VI, 26 gennaio 2005 nr.9210 e nr.9249, entrambe integralmente in www.litis.it:“”il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato è circoscritto a verificare che la pronunzia sia sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica, non fondate su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività“”. Nella motivazione si legge che: “”il controllo di legittimità si appunta esclusivamente sulla coerenza strutturale interna della decisione, di cui saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico – argomentativi della decisione, di cui saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico – argomentativo e, tramite questo controllo, anche l’accettabilità da parte di un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento e da osservatori disinteressati della vicenda processuale””. La V Sezione Penale della Suprema Corte, con Sentenza 16 marzo 2005 nr.13.263, pubblicata integralmente in www.studiocataldi.it/newsgiuridiche ha stabilito, con riferimento alla condotta materiale del reato di ingiuria e/o diffamazione, che: “” … basta che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che di esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente””. Tale massima è stata già precedentemente sancita da Cass. Sez.V, 11 maggio 1999 nr.213.631, Beri Riboli, e Sez. V, 29 maggio 1998, Gravina, entrambe citate nel testo della motivazione della Sentenza 16 marzo 2005 citata.
Nel diritto processuale civile ed amministrativo, il cd. “”fatto notorio””, istituto giuridico attraverso cui pervenire alla risoluzione di casi giudiziari applicando le cd,. “”massime di comune esperienza””, è sancito dall’art. 115 del Codice di Procedura Civile (così come le presunzioni ex art. 2729 C.C.), e non è sottoposto ad alcuna gerarchia rispetto ad altre fonti probatorie.
La necessità, da parte del magistrato, di esercitare la sua funzione di giudizio attraverso una costante applicazione del patrimonio gnoseologico comune nella sua significazione empirico – rappresentativa, si riverbera sul contenuto motivazionale del provvedimento, che sicuramente sarà passibile di valutazione disciplinare, allorquando pretermetta tali dati esperienziali senza addurre una logica, pertinente e congrua argomentazione di segno contrario, che sia in grado di vincere la presunzione, coltivata dal cittadino comune, di derivazione di un fatto ignoto da un fatto noto, accertato empiricamente, al quale il sapere comune riconnette determinati e consueti effetti.
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23. ASPETTI PARTICOLARI DEL VIZIO DI OMESSA OD APPARENTE MOTIVAZIONE.
L’OMESSA CONSIDERAZIONE DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE E LA RINNEGAZIONE DELLA NOMOFILACHIA, INTESA COME DIRETTO COROLLARIO DEL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA COSTITUZIONALE.
Come è notorio, la funzione nomofilattica è prevista dall’art.65 del Regio Decreto 30 gennaio 1941 nr.12 (Legge di Ordinamento Giudiziario) ed è devoluta, a seconda delle giurisdizioni, alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del Consiglio di Stato, delle Sezioni Centrali della Corte dei Conti.
Essa ha, di recente, trovato ulteriore conferma normativa con la legge delega nr.80 / 2005 per la riforma del processo civile, e con il successivo Decreto Delegato nr.40 / 2006, entrato in vigore il 1 marzo 2006, che ha espressamente statuito (seppur nell’ambito del processo civile) tale funzione ordinamentale.
Ovviamente, non si vuole certo mettere in discussione la possibilità, da parte del giudice del merito, di creare giurisprudenza discostandosi dalle consolidate massime “”nomofilattiche””; tuttavia il giudice del merito (come di nuovo si ripete essere noto), nel momento in cui ritiene di non dovervi aderire, deve fornire una motivazione che, in fatto come in diritto, risulti razionalmente plausibile:
sia con riferimento alla giurisprudenza alla quale non si vuole aderire;
sia con riferimento alla tesi che si vuole propugnare ed alle circostanze di fatto e di diritto che la fondano in maniera seria;
sia con riferimento alle massime di comune esperienza che, applicate al caso concreto sottoposto alle sue cure, privilegerebbero la tesi innovativa di quel giudice del merito, innovativa rispetto alle massime consolidate di legittimità regolanti fattispecie simili.
Acconsentire che un giudice di merito possa liberamente prescindere da tale duplice baluardo, rispondente ad esigenze sia di certezza del diritto, sia di diritto costituzionale alla pari dignità sociale ed all’eguaglianza sostanziale dinnanzi alla legge, preluderebbe invero alla vera e propria anarchia giuridica.
Tali argomenti sono fermamente confermati dalla seguente giurisprudenza di legittimità:
1. “”Il dovere di fedeltà ai precedenti della Corte di Cassazione assume rilevanza costituzionale essendo strumentale al suo espletamento il principio, ex art.111 Cost., della indeclinabilità del controllo di legittimità delle sentenze. La Corte può discostarsi dai suoi precedenti quando le si sottopongono argomenti che non siano stati già disattesi o che propongano questioni di particolare gravità””
(Cfr. Cass. 10 luglio 2001 nr.9336 e 21 dicembre 2001 nr.16152, in www.leggeegiustizia.it );
2. Le stesse Sezioni Unite della Corte, poi, hanno proclamato che: “”l’interpretazione della Cassazione possa considerarsi, in modo indiscusso, come quel diritto vivente che, secondo il costante riconoscimento della Corte Costituzionale, compete alla Cassazione di elaborare quale Giudice preposto al controllo di legalità. “”
(Cfr., SS.UU., 4 luglio 2003 nr.10615, in “”Diritto e Giustizia””, nr.29 / 2003, 98).
Questa importante pronunzia, inoltre, confermando quanto statuito dalle prime due sentenze citate (10 luglio e 21 dicembre 2001 cit.) afferma che l’obbligo di uniformarsi, ex art.65 Ord. Giud., alla giurisprudenza della Corte discende ora dal novellato art.111 Cost., e pertanto diventa ancora più inderogabile da parte del magistrato di merito, sia esso inquirente o giudicante, atteso che anche il magistrato inquirente ha, quale scopo del suo Ufficio, quello dell’accertamento della verità e della corretta, uniforme ed imparziale applicazione della Legge, così come interpretata ed uniformata dalla Suprema Corte di Cassazione in campo nazionale.
3. Negli stessi termini, Cassazione Civile Sez. III, 5 luglio 2004 nr.12.282, in “”Guida al Diritto””, fasc. 35 / 2004, pag.52.
4. Chiarissima è la sentenza della Cassazione Penale, Sez. III, 23 febbraio 1994, ricorrente Di Chiara, in “”Cassazione Penale””, 1995, 1264; “”Giustizia Penale””, 1995, II, 159; “”Massimario della Cass. Pen.””, fasc. 10 / 1994, pag.61; “”Rivista Penale””, 1995, 457:
“” L’uniforme interpretazione della legge significa uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge, sicché la nomofilachia è diretta espressione di un principio della Costituzione, l’art.3.
“” L’art.65 dell’Ordinamento Giudiziario attribuisce la funzione nomofilattica alla Corte di Cassazione, ed essa appartiene ad ogni sezione della Corte medesima; la decisione delle Sezioni Unite costituisce una sorta di annuncio implicito di giurisprudenza futura determinante affidamento per gli utenti della giustizia in generale, e per il cittadino in particolare: in tale ipotesi la funzione nomofilattica ha un peso dominante su altri valori e le Sezioni semplici devono prenderne atto. “”.
Orbene, non bisogna neppure essere dei cd. “”addetti ai lavori”” per rendersi conto che diversi risultano i provvedimenti giudiziari che sembrano non rispettare tali più specifici oneri motivazionali. Alla luce della novella legislativa di cui si sta discutendo, un difetto di motivazione rispetto alla giurisprudenza di legittimità che sia consolidata, e che possa essere applicata al caso di specie perché ad esso pertinente, può sicuramente essere oggetto di valutazione disciplinare ai sensi della lettera l) dell’art.2 D.Lgs. 109 / 06, ovvero della lettera l) insieme con l’ulteriore lettera g) (grave violazione di legge determinata da negligenza od ignoranza inescusabile), se non addirittura ai fini di un’eventuale e concorrente responsabilità civile (ovviamente nel caso in cui ricorrano, contestualmente, tutti gli altri elementi sopra dettagliatamente rappresentati).
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24. L’OMESSA OD APPARENTE MOTIVAZIONE QUALE FATTISPECIE DI VIOLAZIONE DEL DIRITTO CONVENZIONALE EUROPEO AD UN EQUO PROCESSO, AD UN RICORSO EFFETTIVO DINNANZI AD UN GIUDICE, A NON ESSERE DISCRIMINATO NELLA TUTELA GIURISDIZIONALE, AI SENSI DEGLI ARTT. 1, 6, 13, 14, 19 C.E.D.U. .
Sempre rimanendo in tema, si deve rappresentare la seguente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, formatasi con riferimento alla mancanza di motivazione quale elemento sintomatico di processo non equo, e quale fattispecie di denegata giustizia. Esemplari, al riguardo, le sentenze 13 febbraio 2002, Kutic c. Croazia, paragrafo 25; 19 febbraio 1998, Higgings c. Francia, paragrafo 42; 29 maggio 1997, Georgiadis c. Grecia, paragrafo 43; 19 aprile 1994, Van De Hurk c. Paesi Bassi, paragrafo 61; 26 ottobre 1984, De Cubber c. Belgio, paragrafo 32, tutte elencate nella rassegna giurisprudenziale pubblicata sul sito giuridico www.dirittoegiustizia.it del 29 luglio 2006, a margine dell’articolo intitolato “” Libertà di stampa. Italia vicina ad una condanna a Strasburgo ? “”.
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25. CRITICHE ALLE OBIEZIONI MOSSE DA ALCUNI SETTORI DELLA MAGISTRATURA ASSOCIATA SULLA RIFORMA “”CASTELLI””.
Tratto da http://www.magistraturaindipendente.it/doc34.htm, si riporta alla lettera il testo “”Riflessioni sulla riforma della responsabilità disciplinare””, che risulta sintetizzare tutte le doglianze mosse dalla magistratura al novello Decreto Legislativo “”Castelli””.
In questo testo, il lettore può immediatamente e facilmente rendersi conto di diverse e radicali contraddizioni logiche interne. La prima sussiste tra il primo periodo, dove si ammette la “”giusta esigenza di provvedere alla tipizzazione degli illeciti disciplinari””, ed il successivo periodare, nella parte in cui stigmatizza “”una dettagliatissima elencazione delle varie ipotesi di illecito, a volte anche ripetitiva … “”, ed ancora dove afferma che “”Tale dettagliatissima tipizzazione, accompagnata dalla previsione dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare … senza assicurare il perseguimento dell’auspicato obiettivo di certezza nella individuazione dei presupposti della responsabilità disciplinare e delle relative sanzioni (???), può diventare strumento di delegittimazione e di condizionamento della magistratura nel suo insieme.””
Con ciò tentando di far credere al lettore (che, evidentemente, si immagina completamente inebetito), che va bene la tipizzazione, ma l’eccessiva tipizzazione no, perché se è eccessiva non assicura il perseguimento dell’ “”auspicato (sic!!!) obiettivo di certezza nella individuazione dei presupposti della responsabilità disciplinare e delle relative sanzioni””.
Successivamente, si torna a cavalcare il vecchio spauracchio della delegittimazione, senza tenere presente che a delegittimare la magistratura vi sono, al primo posto, proprio gli errori commessi dai vari magistrati che, il più delle volte (vox populi, vox Dei) rimangono del tutto privi di una seria e dissuasiva sanzione, sia essa comminata nello stesso ambito processuale, sia soprattutto sul piano deontologico / civilistico che è l’oggetto del presente atricolo.
Queste sono le vere cause della delegittimazione della magistratura, agli occhi del popolo sovrano.
L’articolo, poi, prosegue in questi termini: “” 2- La giusta esigenza di provvedere alla tipizzazione degli illeciti disciplinari e delle relative sanzioni per attribuire, anche in termini di garanzia, certezza e specificità alle fattispecie disciplinarmente rilevanti e, nell’insieme, alla stessa responsabilità disciplinare dei magistrati, ha portato, in realtà, il legislatore delegante a delineare una dettagliatissima elencazione delle varie ipotesi di illecito, a volte anche ripetitiva [v. par. 6, lett. c, n. 3 (“la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile” e “l’adozione di provvedimenti non consentiti dalla legge che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali”) e n. 9 (l’adozione di provvedimenti abnormi)], oppure frazionata in fattispecie analoghe che avrebbero potuto più opportunamente essere accorpate [v. par. 6, lett. c, n. 3 (“il travisamento dei fatti determinato da ignoranza inescusabile”, “l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti”) e n. 7 (“l’adozione intenzionale di provvedimenti affetti da palese incompatibilità tra la parte dispositiva e la motivazione, tale da manifestare una precostituita e inequivocabile contraddizione sul piano logico, contenutistico o argomentativo”)].”” “”Tale dettagliatissima tipizzazione (dettagliata ve bene, dettagliatissima no perché non raggiunge lo scopo della certezza (!!!), l’ha detto al paragrafo precedente, ndr.), accompagnata dalla previsione dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare da parte del Procuratore generale presso la Corte di cassazione e della ulteriore iniziativa facoltativa attribuita al Ministro della giustizia, ha come inevitabile conseguenza la collocazione dell’attività dei magistrati all’interno di un’intricata rete di precetti e divieti, talvolta anche genericamente formulati (ma come, prima era addirittura dettagliatissima la previsione, ora è invece generica!!!; ndr.), che, senza assicurare il perseguimento dell’ auspicato obiettivo di certezza (auspicata è la certezza, non la troppa certezza!!!, ndr.) nella individuazione dei presupposti della responsabilità disciplinare e delle relative sanzioni (dicasi come prima, ndr.), può diventare strumento di delegittimazione e di condizionamento della magistratura nel suo insieme (dicasi come prima, ndr.).“”.
Ancora, possono rinvenirsi i seguenti capolavori logico – argomentativi:
“”3- In particolare, l’insistita e reiterata previsione di illeciti particolarmente dequalificanti sul piano professionale e istituzionale (comportamenti “abitualmente o gravemente scorretti”, o che “arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti; “il perseguimento di fini diversi da quelli di giustizia”; “l’adozione di atti e provvedimenti che costituiscano esercizio di una potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o amministrativi ovvero ad altri organi costituzionali”) denota la volontà del legislatore di fornire all’opinione pubblica l’immagine di una magistratura proiettata, nella sua azione, verso finalità che possono anche non coincidere con quelle istituzionali (altro pretesto, facilmente confutabile attraverso la semplice osservazione secondo cui lo sviamento dalle finalità istituzionali non viene impossibilmente desunto dall’impostazione normativa di un legislatore dalle trame occulte, bensì dal concreto atteggiarsi della giurisdizione, e dalla corrispondenza del contenuto provvedimentale della stessa con il contesto di fatto e di diritto sottoposto alla sua “”istituzionale”” attenzione, ndr.).
“” Sotto altro profilo, la configurazione come illecito disciplinare – o meglio come una pluralità di illeciti – di atti e comportamenti che attengono strettamente al concreto esercizio della giurisdizione, sia sotto il profilo della corretta applicazione della legge, che sotto quello dell’obbligo di motivazione, rendono manifesta l’aspirazione del potere politico di influire concretamente, condizionandoli, sui meccanismi di formazione dei processi decisionali. “”.
Anche qui, si deve ribadire che, come per le altre fattispecie disciplinari “eccessivamente tipizzate (!!!)””, anche per la definizione normativa delle fattispecie dell’illecito disciplinare derivante da una non corretta applicazione della legge e dall’inosservanza dell’obbligo di motivazione, non vi è alcuna (ma proprio alcuna) volontà politica, possibilmente occulta proveniente o suggerita dai poteri forti delle multinazionali del potere economico ( che ovviamente, è mondiale, imperialista ed accentratore), bensì vi è, solo e soltanto, il sedimentarsi di una pluridecennale giurisprudenza dello stesso Giudice disciplinare (C.S.M. e Sezioni Unite della Corte di Cassazione), rispetto alla quale il legislatore delegante e delegato si è posto in una posizione di mera e passiva ricezione.
Il solo prendere atto di ciò rende, pertanto, manifestamente prive di consistenza le obiezioni appena sopra riassunte le quali, anzi, rafforzano ancora di più le critiche svolte nel presente saggio.
26. ALCUNI SUGGERIMENTI CONCLUSIVI.
Come il lettore avrà già avuto modo di constatare, numerosi sono i luoghi comuni, completamente e radicalmente infondati, a proposito di una tanto assolutizzante quanto insussistente “”discrezionalità valutativa del fatto e del diritto””, di cui la magistratura ha sempre rivendicato l’esclusiva titolarità di fronte ad una classe politica che non si è interessata seriamente al problema fino a quando non vi sono stati gli stravolgimenti ben noti dei primi anni ’90, e di fronte ad una collettività che si appassiona ai problemi di rilevanza sociale solo sull’onda dell’emozione derivante dal fatto del momento (per la tematica trattata, ovvio il riferimento al tragico “”caso Tortora””).
L’amplissima rassegna giurisprudenziale, sopra analiticamente esposta insieme con le osservazioni a commento dello scrivente, devono indurre un lettore razionale a formarsi una propria autonoma idea della problematica trattata, anche se è innegabile la radicale infondatezza (desumibile per tabuas) di falsi argomenti e pretesti, propinati ad un opinione pubblica dalla memoria corta anche grazie all’ausilio dell’inerzia e dell’indolenza della pressoché totalità degli organi di informazione (protesi a trattare solo temi “”politicamente corretti””). Tali (numerosi, come si è visto) falsi argomenti e pretesti devono quindi convincere definitivamente il lettore che l’istituzione giudiziaria deve essere ricondotta nell’alveo della piena ed effettiva responsabilità, al pari di tutti gli altri cittadini, finalmente resisi disincantati e non più presi in giro dalle solite solfe.
Catania, 7 settembre 2006 Antonio Laurino
27. IL Dlgs 23 FEBBRAIO 2006 NR. 109, DOPO LA LEGGE 24 OTTOBRE 2006 NR. 269.
DEFINITIVA CONFERMA DELLE PIU’ SIGNIFICATIVE FATTISPECIE DISCIPLINARMENTE RILEVANTI E DEFINITIVA SOTTRAZIONE DELLE STESSE DALL’AREA DI APPLICAZIONE DELLA CD. “ESIMENTE INTERPRETATIVA DEL FATTO, DEL DIRITTO E DELLE PROVE “” (ART.2 COMMA 2 D.LGS.109 / 2006).
Come è noto ai cosiddetti “” addetti ai lavori “”, a seguito di un travagliato iter parlamentare, il testo del Decreto Legislativo 109 / 2006 è stato ulteriormente definito con la legge 24 ottobre 2006 nr.269 (per esteso e con commento, anche in “” Guida al Diritto “”, fasc.11.11.2006 nr.43 / 2006, pagg. 23 / 40).
Tale novella rende, per coerenza, necessario l’aggiornamento del presente contributo con le seguenti ulteriori considerazioni.
Innanzitutto, occorre sottolineare il valore politico della citata conferma legislativa perché essa è stata varata dall’attuale maggioranza parlamentare di centro – sinistra che, nel confermare la struttura fondamentale dell’originario Decreto, con significativo riferimento al novero delle fattispecie tipizzate di illecito (artt.2 e 3) ed al fondamentale (ed innovativo) principio della obbligatorietà dell’azione disciplinare (art.14 co.3), ha quindi dimostrato la piena condivisione, insieme con la restante parte della classe politica che ha governato nella precedente legislatura, della necessità di predisporre strumenti legislativi che si rivelino, dal punto di vista operativo, realmente efficaci per il perseguimento di una responsabilità disciplinare del magistrato prima insindacabilmente rimessa all’opera creativa del Giudice disciplinare, stante la previgenza della clausola aperta contemplata dall’art.18 della legge sulle guarentigie.
Per quanto è di interesse rispetto alla tematica sviluppata con il presente contributo, occorre quindi evidenziare che la legge 269 / 2006 ha abrogato soltanto le lettere i), z) e bb) dell’originario comma 1 dell’art.2, mentre ha pienamente confermato quelle fattispecie di “” illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni “” (così il tutolo dell’art.2) che, più di frequente, possono essere riscontrate nell’attività giudiziaria e che maggiormente incidono sui diritti e gli interessi dei cittadini.
Particolare risalto deve essere dato alle seguenti fattispecie disciplinari dell’art.2:
(leggera a) “” fatto salvo quanto previsto dalle lettere b) e c), i comportamenti che, violando i doveri di cui all’articolo 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti “”;
(leggera b) “” la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione, nei casi previsti dalla legge “”;
(leggera d) “” i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori “”;
(leggera g) “” la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile “” già sopra dettagliatamente trattata;
(leggera h) “” il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile “”sopra dettagliatamente trattato, nel quale ricomprendere l’errore di fatto;
(leggera l) “” l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza l’indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge “”anch’essa sopra dettagliatamente trattata.
Il lettore deve notare, dalla comparazione fra il testo di quest’ultima previsione con quello delle altre pure qui elencate, che il Legislatore non ha richiesto, ai fini della configurabilità della rilevanza disciplinare della fattispecie di difetto di motivazione (o della mera presenza di motivazione “” apparente “”, doviziosamente sopra illustrata con il conforto di una lunga serie di precedenti giurisprudenziali) alcun grado più o meno intenso di colpa, come invece ha preteso laddove, con riferimento alla grave violazione della legge (lettera g), ovvero al travisamento dei fatti (lettera h), ha subordinato la rilevanza disciplinare della fattispecie tipizzata alla sussistenza non solo di “” ignoranza o negligenza “”, ma anche che questa sia “” inescusabile “”
(leggera m) “” l’adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali “” (e quindi, affinché tale fattispecie assuma rilevanza disciplinare, non occorre neanche che i “”diritti personali “” debbano essere “” lesi in modo rilevante “”, come invece è necessario per i “” diritti patrimoniali “”);
(leggera q) “” il reiterato grave ed ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni “”;
(leggera u) “” la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui “”;
(leggera dd) “” l’omissione, da parte del dirigente l’ufficio o del presidente di una sezione o di un collegio, della comunicazione agli organi competenti di fatti a lui noti che possono costituire illeciti disciplinari compiuti da magistrati dell’ufficio, della sezione o del collegio “”;
(leggera ff) “” l’adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza “”; fattispecie queste in cui molti hanno individuato la previsione normativa dell’atto cd. “” abnorme “” che, già con la giurisprudenza anteriore alle innovazioni legislativa di cui si sta parlando, era costantemente considerato fonte di responsabilità disciplinare e civile del magistrato;
(leggera gg) “” l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale fuori dei casi consentiti dalla legge, determinata da negligenza grave ed inescusabile “” che è la conferma, sul piano disciplinare, della previsione di responsabilità civile contemplata, proprio per i casi di illegittime restrizioni della libertà personale, dall’art.2 comma 3 lettera d) della legge 117 / 1988;
ma soprattutto, quello che più significativamente ha confermato la legge 269 / 2006 è il comma 2 dell’art.2 del Decreto Legislativo 23.2.2006 nr.109, il cui testo inequivocabilmente recita:
“” Fermo quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), l), m), o), p), cc) e ff), l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare “”.
La versione del comma 2 precedente alla legge 269 / 2006 era la seguente:
“” Fermo restando quanto previsto dal comma 1, lettere g, h, i, l, m, n, o, p, cc, ed ff, l’attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all’art.12 delle disposizioni sulla legge in generale non dà mai luogo a responsabilità disciplinare “”.
Come si può immediatamente notare, la legge 269 / 2006 ha espunto l’inciso “” in conformità all’art.12 delle disposizioni sulla legge in generale””, articolo che, come è noto, prevede inequivocabilmente che il principale criterio ermeneutico che il magistrato deve adoperare è quello della interpretazione “” letterale “” della legge.
Recita infatti l’art.12 delle Disposizioni sulla legge in generale:
“”Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore “” , versione moderna dell’antico brocardo “” in claris non fit interpretatio “”.
Siccome il cennato articolo 12 delle Preleggi enuncia, quale criterio ermeneutico sussidiario rispetto a quello dell’ “” interpretazione letterale “”, quello della “” … e dalla intenzione del legislatore “”, lo scrivente, ad ulteriore conforto del dato letterale sopra esaminato, si sofferma brevemente anche sull’ “” intenzione del legislatore “” chiaramente desumibile dalla prima versione del testo del comma 2 dell’art.2 del D.Lgs.109 / 2006 poco sopra trascritto.
Ad ennesima conferma dell’intenzione del Legislatore di disporre una interpretazione sicuramente restrittiva della “” esimente interpretativa “” si deve ricordare, fra le altre cose, che la prima versione del ridetto comma 2 dell’art.2 (quella cioé precedente al testo a sua volta definitivamente modificato con la legge 269 / 2006) prevedeva, al posto dell’inciso ora esaminato della “” in conformità all’art.12 delle disposizioni sulla legge in generale””, la non scriminabilità dell’interpretazione cd. “” creativa “” tout court, e quindi prevedeva un parametro di sanzionabilità ancora più stringente rispetto all’imposizione dei criteri ermeneutica codificati dal ripetuto art.12 delle Preleggi.
A parere dello scrivente, la soppressione dell’inciso della scriminabilità dell’attività ermeneutica che sia “” in conformità all’art.12 delle disposizioni sulla legge in generale””, poco modifica lo stato del diritto positivo e del diritto vivente in tema di rimproverabilità proprio di quella interpretazione errata del magistrato che risulti non scusabile sulla base dei dati di quel caso concreto.
Infatti:
dal punto di vista del diritto positivo sono in vigore, pur dopo la soppressione in commento, numerose disposizioni costituzionali e legislative che consentono agevolmente di addebitare al magistrato anche l’errore ermeneutica.
Fra queste si citano, esemplificativamente:
l’articolo 24 ultimo comma della Costituzione statuente “” La legge determina le condizioni ed i modi per la riparazione degli errori giudiziari “” e la Direttiva nr.100 dell’art.2 della legge / delega 16.2.1987 nr.81, che imponeva al legislatore delegato l’adozione di norme processualpenalistiche volte proprio alla “”riparazione dell’errore giudiziario””, riferendosi il dato letterale sia del primo sia della seconda a tutti i tipi di errori giudiziari, e quindi anche a quegli errori non incolpevoli oltre che a quelli alla base dei vari istituti previsti dagli artt.629, 630 e 643 del C.p.p.; ed ancora, gli articoli 101 commi 1 e 2, 105, 108 comma 1, 111 commi 1 e 2 della Costituzione i quali, come è stato già sopra più volte detto, consacrano il principio della riserva di legge in materia sia di Ordinamento Giudiziario, sia nello specifico della responsabilità disciplinare e, ancor di più, della giustiziabilità / riparabilità del genus dell’errore giudiziario, nel quale, ovviamente, vi è la species della condotta disciplinarmente rilevante;
le lettere g), m), ff) del comma 1 dell’art.2 del Decreto Legislativo 109 / 2006 che prevedono la “” grave violazione di legge “” ovvero “” l’errore macroscopico “”, anch’esse espressamente sottratte, attraverso il pluricitato comma 2 dell’art.2, dall’area di applicazione della cd. “” esimente interpretativa “”;
se l’attività intellettuale di intepretazione precede logicamente ed ontologicamente quella di applicazione del testo normativo al fatto concreto, allora è del tutto ovvio che l’atto della “” grave violazione della legge “” ovvero l’atto dell’“” errore macroscopico “” nell’applicazione di un testo normativo implica di per se, ontologicamente, l’errore “” grave ed inescusabile “”, ovvero “” macroscopico “” della necessariamente propedeutica attività intellettiva di interpretazione della norma di diritto !!!
Ma allora tali lettere del comma 1 dell’art.2 del D.Lgs 109 / 06 confermano nettamente la sindacabilità dell’errore interpretativo !!!
gli articoli 65 e 73 della legge di Ordinamento Giudiziario che prevedono, rispettivamente:
l’obbligo normativo del magistrato in generale di aderire alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, ovvero il dovere di motivare in maniera necessariamente adeguata sul proprio di scostamento da quella giurisprudenza che si concreti nella esternazione di una motivazione effettivamente coerente e congrua con quella giurisprudenza di legittimità e con quel singolo fatto da giudicare.
Come è noto, tale dovere primario incombente sull’operato del magistrato è stato, di recente:
v non solo ancora di più ribadito (in ambito civile, ma con risvolti logico / sistematici che ovviamente non possono che rifluire anche nelle altre aree del diritto) sotto il profilo del diritto positivo con la riforma del giudizio civile di cassazione introdotto prima con la legge / delega nr.80 / 2005 e poi con il Decreto Legislativo 40 / 2006 (la cui stessa titolazione menziona espressamente la “” funzione nomofilattica “” del Giudice di legittimità);
v ma confermato anche dalla più recente giurisprudenza dello stesso giudice nomofilattico, che anzi ha ribadito con ancora più forza il referente costituzionale di tale dovere del giudice di merito (ed anche delle Sezioni della stessa Corte di Cassazione) di adeguamento alla propria giurisprudenza:
sia nel principio costituzionale di eguaglianza e non discriminazione di tutti i cittadini di fronte alla legge di cui agli artt.2 e 3 della Costituzione, palesemente ed intuitivamente vulnerato da decisioni giurisdizionali avulse dai dettati del giudice di legittimità perché per alcuni non varrebbero le regole di diritto sancite per la maggior parte dei cittadini, senxa che sia esternato un percorso logico giuridico coerente con quella singola fattispecie;
sia nel principio del “” giusto processo “” consacrato dai primi due commi dell’art.111 della Costituzione, così come novellato dalla legge costituzionale 23.11.1999 nr.2;
l’obbligo normativo del Pubblico Ministero in particolare, di “” vigilare sulla corretta applicazione della legge “”, laddove l’aggettivo “” corretta “” comprende (ovviamente !!) anche il dovere di uniformazione alla giurisprudenza del giudice nomofilattico di cui al precedente articolo 65, ovvero l’alternativo obbligo di motivazione del dissenso;
dal punto di vista invece del diritto vivente, le pronunzie succedutesi nel tempo e sopra tutte elencate alle pagine 32 / 43 hanno, nella maggior parte, sancito la piena responsabilità disciplinare proprio ed esattamente per errore dell’interpretazione del magistrato, allorquando tale errore si riveli “” inescusabile “”, e cioè nel caso in cui non abbia alcun aggancio con l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale e, al contempo, non possa essere razionalmente scusato dalle emergenze fattuali e probatorie rinvenibili in quella singola e specifica vicenda processuale che, astrattamente, possano aver fatto incolpevolmente fuorviare la valutazione del magistrato.
In conclusione sul punto, la definitiva versione del comma 2 dell’art.2 del Decreto Legislativo 109 / 2006, secondo cui:
“” Fermo quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), l), m), o), p), cc) e ff), l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare “”, non può che essere onestamente letta come il testo normativo con cui il Legislatore ribadisce la propria volontà di sancire che la storica “” clausola di esimente interpretativa “” non può ora essere giammai acriticamente eccepita quale scriminante l’attività giurisdizionale, in quegli specifici e determinati casi in cui la condotta censurata sia sussumibile in una (o in più) di quelle particolari fattispecie tipizzate dalle “” lettere g), h), l), m), o), p), cc) e ff) del comma 1 “” .
Seguendo doverosamente i criteri ermeneutici stabiliti dall’art.12 delle Disposizioni sulla legge in generale, tale conclusione è del tutto sicuramente confortata sia dall’interpretazione letterale, sia anche dalla stessa successione dei due testi vigenti anteriormente a quello in vigore,
che denotano una intenzione del Legislatore volta a restringere il più possibile l’area di applicazione della cd. “” esimente interpretativa “”.
Il Legislatore,quindi, ha chiaramente ribadito la propria scelta politica di ancorare il giudizio di disvalore di particolari condotte commissive ed omissive dei magistrati alla mera constatazione della sussistenza della fattispecie tipizzata, sancendo l’impossibilità, per il Giudice disciplinare e (prima ancora) per l’Autorità Inquirente ((il Procuratore Generale della Corte di Cassazione che fra l’altro, ai sensi del già più volte citato art.14 comma 3, è gravato innanzitutto dall’obbligo di esercitare l’azione disciplinare procedendo al previo esperimento delle indagini preliminari così come delineate dagli articoli 15 e seguenti), di pervenire, in relazione a tali determinate condotte ora positivizzate, ad una valutazione diversa da quella della responsabilità disciplinare che, pertanto, con limitato riferimento alle fattispecie indicate dal comma 2 dell’art.2, deve coerentemente considerarsi IN RE IPSA.
Anche se va, comunque, parimenti evidenziato che tale impossibilità di pervenire a conclusioni diverse non influisce sul potere discrezionale delle citate Autorità procedenti in relazione alla scelta della commisurazione della correlata sanzione, la risolutezza del dato normativo di cui al ripetuto art.2 comma 2 non consente alternative conclusioni.
28. IL “”FATTO DI SCARSA RILEVANZA“”
(ART.3 BIS D.LGS.109 / 2006).
Quanto appena detto con riferimento al novellato comma 2 dell’art.2 del D.Lgs.109 / 2006 serve per comprendere quella che deve essere, per logica coerenza, l’effettiva consistenza dell’istituto del cd. “” fatto di scarsa rilevanza “” introdotto dalla legge 269 / 2006 nel citato Decreto con l’articolo 3 Bis, che così recita:
“” L’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza “”.
Tale previsione deve essere letta insieme con quella dell’art.16 comma 5 bis del Decreto Legislativo 109 / 2006, il quale a sua volta dispone che:
“” Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione procede all’archiviazione se il fatto addebitato non costituisce condotta disciplinarmente rilevante ai sensi dell’art.3 Bis, o forma oggetto di denunzia non circostanziata … “” (su cosa debba intendersi per “” denunzia circostanziata “”, si rimanda al paragrafo successivo).
L’inserimento contestuale sia dell’art.3 Bis, sia del comma 5 bis nell’art.16 è stato, nei lavori parlamentari, dichiaratamente propugnato per temperare il rigore del principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare sancito dall’intoccato art.14 comma 3 che, secondo alcuni, avrebbe costretto il titolare della pretesa punitiva ad una automatica ed acritica azione disciplinare per il solo fatto della presenza di un esposto disciplinare, a prescindere dalla concreta lesione dei valori tutelati dal sistema di norme deontologiche.
Non è necessario spendere molte parole per comprendere che il disposto dell’art.3 Bis possa – soprattutto se letto isolatamente dal restante contesto normativo sopra rappresentato; e soprattutto se, memori dell’uso che alcuni hanno definito (eufemisticamente) “” corporativo “” della giustizia disciplinare ante novelle in questione, si è indotti a ritenere che ogni appiglio alla discrezionalità dell’Autorità disciplinare possa essere dilatato ad libitum per ritornare ai vecchi fasti della sostanziale immunità dell’attività giudiziaria -, tendenzialmente svuotare di contenuto precettivo il principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare, imposto al Procuratore Generale della Corte di Cassazione dal ridetto art.14 comma 3 D.Lgs.109 / 2006.
Se però, onestamente, non si vuole che le recenti riforme in commento siano state un vano esercizio legislativo, allora il “” fatto di scarsa rilevanza “” può essere effettivamente tale solo se si considera:
A) che il punto di partenza di qualsiasi interpretazione di norme di diritto rimane, come sopra già più volte ribadito, il dato letterale derivante dalla successione dei segni linguistici, così come stabilito dal già ripetuto art.12 delle Preleggi;
B) che l’aggettivo “” scarso “”, secondo il significato che gli viene attribuito proprio dal linguaggio comune anzidetto, non può che riferirsi a fattispecie non già di insufficiente importanza, ma di assolutamente risibile consistenza;
C) che, nella peculiare materia de quo, il giurista deve rispettare le varie riserve di legge consacrate dalla Costituzione con gli artt.24 ultimo comma (confermato dalla Direttiva nr.100 dell’art.2 della legge / delega 16.2.1987 nr.81), 101 commi 1 e 2, 105, 108 comma 1, 111 commi 1 e 2, anch’essi sopra adeguatamente e ripetutamente illustrati, che impediscono qualsiasi disinvoltura discrezionale da parte delle Autorità disciplinari (Procuratore Generale e C.S.M.), evenienza questa sempre probabile trattandosi di magistrati, per formazione ideologica e professionale abituati da sempre alla discrezionalità nelle sue varie coniugazioni del “” libero convincimento “” e dell’ “” insindacabilità dell’attività interpretativa “” a tutti purtroppo ben note;
D) che queste ultime, insieme con le considerazioni del precedente paragrafo 27, costringono il giurista intellettualmente onesto ad eliminare in radice, dal novero delle fattispecie potenzialmente “” scarse “”, quelle condotte tipizzate dalle lettere menzionate dal comma 2 dell’art.2 del Decreto Legislativo in commento che, all’esito di indagini preliminari che il P.G. titolare ha l’obbligo di compiere (art.14 comma 3), risultino essere state effettivamente compiute in punto di fatto, demandando ogni più compiuta valutazione in diritto alla naturale sede del più approfondito giudizio dibattimentale (art.18), in ossequio al favor actionis che, oramai, connota di sé anche la procedura disciplinare a carico dei magistrati, come si argomenta al successivo punto F);
E) che, pertanto, la formulazione del comma 5 Bis dell’art.16 del D.Lgs.109 / 06 alternativa fra la possibilità del P.G. presso la Corte di Cassazione di richiedere l’archiviazione nei casi previsti dall’art.3 Bis ovvero nel caso in cui “” non rientra in alcuna delle ipotesi previste dagli articoli 2, 3 e 4 “” risulta quantomeno infelice con limitato riferimento a quelle particolari e più gravi fattispecie previste dalle lettere indicate al comma 2 dell’art.2 che, come si è appena sopra argomentato, presentano una rilevanza disciplinare sicuramente IN RE IPSA non suscettibile di richiesta di inazione del P.G.;
F) che, in conclusione:
- se l’art.16 comma 2 del Decreto 109 / 06 in commento stabilisce che “” Per l’attività di indagine si osservano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale, … “”, con la ulteriore conferma di tale estensione del C.P.P. al processo disciplinare anche dall’art.18 comma 4 (per la fase dibattimentale dinnanzi al C.S.M.);
- se il combinato disposto della Direttiva nr.50 dell’art.2 della legge / delega 16.2.1987 nr.81 e dell’art.125 delle Disposizioni di Attuazione del Codice di Procedura Penale, nell’interpretazione autorevolmente avallata dalla Corte Costituzionale con la Sentenza 88 / 1991, stabilisce inequivocabilmente che per richiedere legittimamente l’archiviazione di un procedimento penale occorre che il Pubblico Ministero dimostri la sussistenza di una “” manifesta infondatezza “” della notitia criminis, non bastando al riguardo una infondatezza “” non manifesta “” che prognosticamente sia controvertibile nella successiva fase della plena cognitio dibattimentale / processuale;
- e se, infine, in armonia con i principi del Codice di Procedura Penale espressamente richiamati dai ridetti artt.16 comma 2 e 18 comma 4 del D.Lgs.109 / 2006, deve essere riconosciuto anche nella procedura disciplinare a carico dei magistrati il principio del favor actionis stabilito per la procedura penale dagli artt.112 della Costituzione, 50 e 124 del Codice di Procedura Penale;
allora diventa completamente evidente che la fattispecie contemplata dal novellato art.3 Bis può riferirsi, soltanto ed unicamente, a condotte veramente residuali di assolutamente risibile violazione dei doveri disciplinari e che, in ogni caso, non facciano parte di quelle fattispecie di cui alle lettere indicate dal comma 2 dell’art.2 del D.Lgs.109 / 2006.
29. LA “” DENUNZIA CIRCOSTANZIATA “”
(ART.15 D.LGS.109 / 2006).
Recita l’art.15 del Decreto Legislativo 109 / 2006:
“La denuncia è circostanziata quando contiene tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare. In difetto di tali elementi, la denuncia non costituisce notizia di rilievo disciplinare”.
Come per l’art.3 Bis anche l’art.15, nella parte ora trascritta necessita, nonostante la chiarezza terminologica, di un breve soffermo.
Come si è sopra evidenziato, affinché le riforme ordinamentali in commento non siano l’ennesima occasione, dopo quella della totale vanificazione della volontà popolare plebiscitariamente sancita con il referendum “” Tortora “”, per una vera e propria presa in giro delle istanze di giustizia sostanziale reclamate dal “” popolo sovrano “” (artt.1 comma 2 e 101 comma 1 della Costituzione), attuata attraverso una vanificazione delle richieste di giustiziabilità delle condotte dei magistrati non conformi al diritto ed alla deontologia, occorre prevenire eventuali vie di fuga che, attraverso gli spiragli del testo normativo, possano condurre verso la tanto agognata ed antica discrezionalità del giudice disciplinare nell’assolvere tanto costantemente quanto acriticamente e, in alcuni casi, persino ingiustamente, i vari magistrati incolpati.
Tale necessaria puntualizzazione non a caso è collocata dallo scrivente a ridosso delle precedenti considerazioni.
Infatti, i sopra riferiti istituti delle varie “” riserve di legge “” che regolano la materia in commento, del favor actionis codificato sia dall’art.14 comma 3 (obbligatorietà della azione disciplinare) sia dagli artt.16 comma 2 e 18 comma 4 del D.Lgs.109 / 2006 (rimando alle norme del C.p.p. e quindi indiretta ulteriore conferma dell’obbligatorietà di cui all’art.14 comma 3); la necessità, rafforzata ancora di più dai cennati istituti giuridici, di ancorare l’interpretazione del testo delle riforme in commento al dato letterale, conduce il giurista intellettualmente onesto alla conclusione che gli “” elementi costitutivi dell’illecito disciplinare “” che rendono la denuncia “” circostanziata “” ai sensi dell’art.15 del D.Lgs.109 / 2006 sono:
un fatto / una condotta che risulti storicamente esistente;
un fatto / una condotta che, anche solo astrattamente, sia logicamente sussumibile nelle fattispecie disciplinari codificate dal Decreto 109 / 2006.
Questo, e soltanto questo, dovrebbe essere l’oggetto dell’accertamento demandato al P.G. nella fase delle indagini preliminari.
Ogni ulteriore e più approfondita indagine deve essere correttamente demandata dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione alla fase processuale dinnanzi al C.S.M., con la richiesta di rinvio a giudizio prevista dai commi 1 e 2 dell’art.17 del D.Lgs.109 / 2006.
Fra l’altro, occorre sottolineare non solo che il naturale corollario dei sopra esposti principi è l’onere, incombente sul Procuratore Generale che voglia richiedere l’archiviazione dopo le indagini (comma 1 dell’art.17), di formulare (comma 6 dell’ art. 17), “” richiesta MOTIVATA alla sezione disciplinare per la declaratoria di non luogo a procedere “”, ma soprattutto che tale onere di motivazione risulta l’ulteriore conferma normativa della fondatezza delle sopra esposte tesi.
SULLA NECESSITA’ DELL’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE DELL’AUTOARCHIVIAZIONE DELL’ESPOSTO DISCIPLINARE DISPOSTA DAL PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE AVVALENDOSI DEI POTERI CONFERITI DAGLI ARTT.3 BIS E 16 COMMA 5 BIS DEL DECRETO LEGISLATIVO 109 / 2006, PER L’ASSENZA DEL CONTROLLO GIURIDIZIONALE DEL C.S.M. E PER COERENZA LOGICO – SISTEMATICA.
Fra l’altro, appare contraddittorio prevedere normativamente la motivazione per tale richiesta, e non invece per l’archiviazione dell’esposto attuata motu proprio dallo stesso Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale decida di avvalersi dei poteri previsti dal combinato disposto degli artt.3 Bis e 16 comma 5 Bis, perché è evidente non solo che in tali casi non è previsto alcun controllo giurisdizionale da parte del C.S.M. (come invece è stabilito dal ridetto comma 6 dell’art.17 nel caso di richiesta del P.G. di “” declaratoria di non luogo a procedere “” all’esito delle espletate indagini preliminari), ma soprattutto perché, per logica coerenza sistematica, proprio i sopra esposti principi generali costituzionali impongono, nel caso di autoarchiviazioni disposte unilateralmente dal P.G., che l’Autorità procedente l’esterni una motivazione ancora più pregnante con la quale possa dimostrare, attraverso un serio giudizio prognostico di sicura e totalmente manifesta inattendibilità della pretesa punitiva, che la deroga al principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare sia effettivamente più che giustificata.
30. CENNI SULLA SUSSIDIARIA IPOTETICA RILEVANZA PENALE, SUB SPECIE DI ABUSO IN ATTI D’UFFICIO, DELLA VIOLAZIONE DELLE NORME LEGISLATIVE IN MATERIA DI RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE DEL MAGISTRATO.
Come è noto, l’attuale formulazione dell’art.323 del Codice Penale prevede:
quale elemento oggettivo del reato di abuso in atti d’ufficio, la condotta del Pubblico Ufficiale attuata “” in violazione di norme di legge o di regolamento “”;
quale evento che rende perfezionato il reato, “” il danno ingiusto altrui “”, ovvero “” il vantaggio ingiusto per se o per altri “”;
quale elemento soggettivo del reato, “” intenzionalmente procura a se o ad altri “”.
La giurisprudenza ha costantemente stabilito che le norme di legge o di regolamento di cui alla lettera A) devono essere precettive nei confronti del Pubblico Ufficiale, nel senso che gli devono imporre un determinato comportamento. Orbene, non si vede quale norma di diritto possa essere più precettiva nei confronti del Pubblico Ufficiale rispetto alla legge o al regolamento che imponga un certo comportamento a pena di sanzione disciplinare.
Sotto questo particolare aspetto, non risulta allo scrivente che vi siano stati approfondite riflessioni dottrinali, nonostante risulti di palmare evidenza che il magistrato che assuma una condotta sussumibile in una delle fattispecie tipizzate dagli artt.2, 3 e 4 del D.Lgs.109 / 2006 non solo viola il precetto disciplinare, ma pone in essere una condotta del tutto sicuramente “”in violazione di legge””.
Quantomeno sotto il profilo strettamente oggettivo, quindi, si potrebbe porre il problema della sussistenza del reato di abuso in atti d’ufficio dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna del magistrato a sanzione disciplinare per una delle condotte di cui agli artt.2, 3 e 4, una volta verificato che tale condotta abbia cagionato l’evento di reato di cui alla precedente lettera B).
Resterà poi devoluto alla cognizione della competente Autorità Giudiziaria Penale la verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo che, a differenza della responsabilità disciplinare, deve riscontrarsi in termini rigorosi di “” dolo intenzionale “” (lettera C).
31. ULTERIORI CONFERME DEI NUOVI SCENARI DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE DEL MAGISTRATO, ALL’INDOMANI DELLA “” EPOCALE “” SENTENZA 13 GIUGNO 2006 DELLA GRANDE SEZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLA COMUNITA’ EUROPEA.
Di recente sono stati pubblicati due saggi, rispettivamente nei fascicoli nn.rr. 05 / 2007 e 07 / 2007 della rivista giuridica “” Danno e Responsabilità “”, che trattano specificamente il tema dei nuovi scenari della responsabilità civile dei magistrati dopo la sentenza 13 giugno 2006 della Grande Sezione.
Tali contributi risultano di particolare importanza per un ulteriore approfondimento della materia, e perché, in molti passaggi, confermano pienamente ciò che questo scrivente ebbe ad argomentare nella prima versione non aggiornata del presente intervento.
I contributi citati, infatti, confermano la portata dirompente ed epocale dell’arresto giurisprudenziale, la vincolatività della giurisprudenza del Giudice comunitario rispetto alla discrezionalità di cui rimane fiero titolare il giudice nazionale a tal punto da imporre a quest’ultimo o la diretta disapplicazione della legge 117 / 1988 nelle parti censurate dal giudice sopranazionale, o la riproposizione del rinvio pregiudiziale di nuovo alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art.234 del Trattato CE.
Inoltre, particolare risalto viene dato alla necessità di evitare le cosiddette “” sperequazioni alla rovescia “” di cui questo scrivente ha già parlato nel settembre 2005 alla pagina 23 (e alla pag.25) del presente contributo, che potrebbero configurarsi fra violazioni manifeste del diritto comunitario.
In tali termini (poi pienamente confermati con i due saggi ora menzionati) lo scrivente aveva affrontato la questione.
Cadono, inoltre, le esenzioni per il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale dei giudici relative all’interpretazione di norme di diritto, alla valutazione del fatto e delle prove, cristallizzate da anni nella legge 117 / 1988. Restano in piedi, tuttavia, per la manifesta violazione di norme appartenenti al diritto interno, aprendo una paradossale disparità di trattamento tra interpretazione di norme comunitarie e norme interne””.
Tale paventato pericolo di sperequazione viene prontamente risolto da Damato, nel paragrafo “”gli effetti”” del suo saggio pubblicato sul settimanale giuridico “”Guida al Diritto””, fasc. nr.4 / 2006 <>, pag.39, in questi chiarissimi termini:
“”L’impatto di tale decisione sulla legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati è oltremodo significativo. Essa determina, secondo una ben nota giurisprudenza della Corte Costituzionale, la disapplicazione delle norme nazionali risultate incompatibili con il diritto comunitario. La sentenza della Corte di Giustizia riguarda, però, unicamente i casi di violazione dei diritti attribuiti ai singoli dalle norme comunitarie, e i suoi effetti sulla legge italiana sono circoscritti a tali ipotesi. A essa consegue, perciò, la possibilità che si determinino situazioni di discriminazione per gli individui che subiscono analoghi danni per violazioni del diritto interno. In attesa di una modifica della legge 117 / 1988, la tutela di tali situazioni, note al diritto comunitario come discriminazioni alla rovescia, può essere assicurata unicamente, sulla base dell’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale, attraverso l’applicazione del principio di uguaglianza, equiparando le violazioni del diritto interno a quelle del diritto comunitario“”.
32. ALCUNE IMPLICAZIONI SOCIOLOGICHE DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE E DISCIPLINARE DEI MAGISTRATI.
Il cittadino di fronte al torto non può che fare affidamento sulla Giustizia.
Egli non può regolare i propri conti da solo, perché incorrerebbe nella sanzione penale e civile, così come non può scegliersi il Giudice che gli ispiri fiducia. L’elemento fondante le società moderne è il cd. “” patto sociale “”, attraverso il quale i singoli cittadini si consociano fra di loro, formano la collettività / il popolo / la nazione (a seconda delle definizioni ideologiche) e conferiscono all’entità collettiva i poteri e l’autorità necessari per dirimere le controversie che possono insorgere fra loro. Il cittadino, quindi, rinuncia alla vendetta privata, al soddisfacimento immediato delle proprie ragioni in via privata, per conferire allo Stato, alla giustizia statale una parte della propria autonomia privata. Visti sotto questo aspetto, gli errori e / o le violazioni colpose e / o dolose delle norme che danno luogo alla responsabilità civile e / o disciplinare dei magistrati risultano intaccare addirittura una delle basi del “” patto sociale “” fra cittadino e comunità statuale, che ha imposto al cittadino una parziale privazione della propria autonomia privata, conferendo tale potere di giustizia per il soddisfacimento delle proprie ragioni allo Stato che, però, attraverso i suoi agenti giuridici, viene meno a questo obbligo ( quasi sinallagmatico).
Pertanto, le implicazioni sociologiche delle fattispecie che generano la responsabilità civile e disciplinare dei magistrati sono di rilevante consistenza proprio perché vanno a toccare nell’intimo il rapporto di fiducia non tanto fra il cittadino e l’istituzione giudiziaria, quanto soprattutto il rapporto fra il primo e lo Stato a tutti gli effetti. Il cittadino privato della giustizia che gli spetta, ovvero colpito da un provvedimento giudiziario gravemente errato o addirittura abnorme, riversa il proprio malcontento e la propria personale frustrazione sull’intero sistema dei rapporti cittadino / comunità e cittadino / Stato, non soltanto nei confronti del “” pianeta giustizia “”.
Egli perde dei veri e propri punti di riferimento e delle certezze esistenziali in grado di farlo orientare nel complesso reticolo dei rapporti sociali in maniera socialmente (e non già eticamente) virtuosa.
A seconda dell’intensità dell’esperienza di ingiustizia subita in relazione ai valori ed agli interessi personali coinvolti nella vicenda giudiziaria, il cittadino può addirittura giungere a sviluppare dei comportamenti antisociali.
Il reduce da un fallimento ingiusto sarà ben restio dall’intraprendere una nuova attività pur avendone mezzi economici e competenze tecniche, e tale mancata intrapresa è ovvio che cagiona al tessuto sociale un danno al proprio sviluppo.
In contesti culturalmente più retrivi quali quelli in cui attecchisce la cultura mafiosa e camorristica, il cittadino deprivato della giustizia statale necessariamente dirigerà le proprie attese di soddisfazione verso altri centri di potere in grado di dargli, nell’immediato, quanto soggettivamente ed in buona fede crede che gli spetti per aver subito un torto.
Il constatare, poi, che tale tipo di amministrazione << privata >> della giustizia sia di gran lunga più efficace e più celere della giustizia statale contribuisce ancora di più ad alimentare la sfiducia che, lo si ripete, non involge soltanto il sistema giudiziario isolatamente considerato, ma l’intero sistema statale. Lo Stato, il Legislatore ma soprattutto il Giudice deve essere pienamente consapevole di ciò, nella sua quotidiana ed anonima amministrazione della giustizia.
Catania, 17 novembre 2007
Antonio Laurino (M.llo Guardia di Finanza)