di Pietro Palau Giovannetti (sociologo)
Presidente Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood
Indice:
Premessa
1. L’ARMA «NONVIOLENTA» DELLA PAROLA CONTRO LE MAFIE
2. UNA BREVE PREMESSA: COSA SI INTENDE PER «MASSOMAFIE» ?
3. IL «PACTUM SCELERIS» TRA STATO E MASSOMAFIE CHE GLI ITALIANI NON DEVONO CONOSCERE…
4. I SILENZI DI SAVIANO E DEGLI INTELETTUALI SULLO «STATO OCCULTO».
IL RUOLO DELLA MASSONERIA E LE COMPLICITA’ SECOLARI DELLA MAGISTRATURA
5. A QUESTO PUNTO DUE DOMANDE D’OBBLIGO
6. PADANI E PADRINI
7. L’INCIUCIO SULLA SEDE FEDERALE DELLA LEGA NORD
8. IL SOGNO SECESSIONISTA DELLA MAFIA E QUELLO DELLA LEGA NORD:
«PARLA UN’ALTRA LINGUA MA VUOLE LE STESSE COSE: VOTI E POTERE».
9. IL PROGETTO DELLA LEGA NORD DI COSTITUZIONALIZZARE LA MAFIA,
AFFIDANDOLE LA DIRETTA GESTIONE POLITICA ED ECONOMICA DEL SUD.
10. IL VERO PROBLEMA DELLA LEGA NORD E DEL SISTEMA DEI PARTITI:
CONTINUARE A CELARE L’ESISTENZA DEL «DOPPIO STATO».
11. STATO, MAFIA, MASSONERIA SONO UNA “COSA SOLA”.
FALCONE DIXIT: «UN’ALLEANZA CAPACE DI CONTAMINARE QUALSIASI REALTA’».
12. IL «CLUB» DOVE STANNO DENTRO MAFIOSI, INDUSTRIALI, MASSONI, CAVALIERI DI MALTA,
POLITICI E UOMINI DEI SERVIZI SEGRETI.
13. L’ASSOGGETTAMENTO DI PROCURE E C.S.M. ALLE «MASSOMAFIE».
PACINI BATTAGLIA E LA VICENDA DELL’AUTOPARCO DELLA MAFIA.
14. LA SORTE DI CHI OSA RIBELLARSI ALLE MASSOMAFIE E’ PUNITA PRIMA CON IL DISCREDITO,
EPPOI CON LA MORTE CIVILE. E SE NON BASTASSE CON FALSI SUICIDI O STRAGI SPETTACOLARI.
15. ANALOGIE TRA LE INCHIESTE “MANI SEGRETE” DI CORDOVA E WHY NOT» DI DE MAGISTRIS
16. IN TUTTO CIO’ CI DOMANDIAMO DOV’E’ LO STATO?
Premessa.
Il pezzo che segue è la quarta parte di una serie di articoli sul rapporto tra «Stato e massomafie», basati sulla diretta esperienza della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood e della rete Avvocati senza Frontiere, in oltre 25 anni di battaglie civili, contro la corruzione giudiziaria e i «colletti bianchi», che abbiamo iniziato a pubblicare dal 2007. Impegno non gradito ai poteri forti, a fronte del quale io stesso sono stato ritorsivamente condannato ad oltre 10 anni di carcerazione per insussistenti reati ideologici, nel tentativo di soffocare una voce scomoda che denuncia le collusioni della magistratura di regime con le massomafie. Fatti che svelano la vera natura e finalità del sistema giudiziario italiano, inteso come mero strumento d’oppressione, repressione e sopraffazione dei diritti umani, utilizzato per legittimare gli abusi di autorità commessi da soggetti pubblici e privati in posizione dominante o da governi corrotti asserviti alla criminalità massomafiosa e, non già, come «limite al potere» e difesa delle libertà e dell’eguaglianza. [“Chi è il nostro Presidente?”: http://perlagiustizia.org/robinhood/associazione.php?page=pietro-palau ] (1).
Le parti precedenti dal titolo “$tato, mafia, Ma$$oneria come unico $istema” sono scaricabili a partire dalla pagina web: www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=109 (2).
1. L’ARMA «NONVIOLENTA» DELLA PAROLA CONTRO LE MAFIE
Mentre la Direzione Investigativa Antimafia, nella relazione del 1° semestre 2010, consegnata al Parlamento, confermava «la costante e progressiva evoluzione» della presenza della ‘ndrangheta nel nord Italia che interagisce in particolare «con gli ambienti imprenditoriali lombardi», la trasmissione televisiva «Vieni Via con Me» e Roberto Saviano, che coraggiosamente davano eco a un fenomeno noto agli investigatori e agli studiosi, da almeno 25 anni, sono stati fatti oggetto, come pure arcinoto, di violenti attacchi e censure del Ministro dell’Interno Maroni e dello sterile «fanculo» del leader carismatico della Lega Nord, Umberto Bossi.
I fatti descritti da Saviano che tanto hanno stizzito gli ambienti politici lumbard e settori del governo sono già stati dunque in passato ampiamente riferiti dai media, ovvero oggetto di ultraventennali indagini investigative degli inquirenti e della Dia, seguite da dettagliate denunce e relazioni al Parlamento sull’allarmante costante e progressiva evoluzione della presenza delle mafie nel tessuto sano dell’economia delle maggiori Regioni del Nord, senza che Maroni né nessun altro Ministro della Repubblica o forza politica si siano mai scandalizzati.
L’allarmante quadro è confermato dalla più recente relazione annuale della D.N.A., che segnala come la ‘ndrangheta, tra le Province di Milano, Varese e Novara, “attraverso estorsioni, usura, riciclaggio, omicidi e ferimenti, detenzione illecita e porto d’armi, stupefacenti e rapine”, sia riuscita a ottenere il “controllo completo del territorio (…), per conservare la gestione monopolistica non solo delle attività criminose, ma anche di interi settori produttivi (…)”.
Una vera e propria «mafia imprenditrice», prosegue il P.M. Roberto Pennisi, della Direzione Nazionale Antimafia, “capace di imporre agli operatori economici anche in Lombardia la sua necessaria presenza. Il tutto attraverso intimidazioni, danneggiamenti e roghi sui cantieri, esplosioni, colpi d’arma da fuoco contro altri imprenditori, incendi di vetture di concorrenti o di pubblici amministratori, minacce a mano armata, imposizione di un sovrapprezzo nei lavori di scavo… potendo così contare sulla conseguente condizione di assoggettamento e di omertà della generalità dei cittadini”.
C’è allora da chiedersi perché solo oggi fatti noti già descritti dai media nell’arco degli ultimi 25-30 anni destino tanta inquietudine e allarme, tanto da indurre il Ministro dell’Interno a chiedere il diritto di replica?
La prima novità sta nell’uso sapiente e rivoluzionario che Saviano fa della parola, riuscendo a mettere in crisi potenti organizzazioni criminali, colluse e protette da decenni dalle Istituzioni dello Stato, capaci di contare su capitali forti e migliaia di uomini armati, come ci spiega magistralmente in “la parola contro la camorra”.
La parola e la letteratura come «armi nonviolente» dei deboli per affermare la Verità e la Giustizia, rendendo attraverso «l’arte del raccontare», vicende di malagiustizia, spesso avvolte nell’ombra, storie degne di essere portate a conoscenza di un largo pubblico, che ogni lettore attento, a sua volta, contribuirà a divulgare, aiutando progressivamente la società a liberarsi dalle catene della «manipolazione mediatica» e dalla cosiddetta «omologazione» della cultura dominante, espressione dei poteri forti, che detengono incontrastatamente il potere di controllo e condizionamento delle politiche economiche e sociali delle nazioni. La cosiddetta «tirannia della maggioranza», da cui, dapprima, de Tocqueville, in “La democrazia in America”, eppoi Stuart Mill, con la sua “Teoria della libertà”, ci hanno messo in guardia, sin da prima dell’inizio del secolo scorso. Un’opinione pubblica omologata, legata alle consuetudini, guardinga nei confronti delle novità e incapace di mettere in dubbio le verità consolidate è, infatti, ciò di cui oggi hanno giustappunto bisogno le «massomafie» e i poteri globali occulti da cui siamo governati.
La seconda novità che allarma lo «Stato occulto» è appunto il fatto che Saviano dopo aver parlato per anni della Camorra, abbia iniziato a portare al centro dell’attenzione mediatica, anche se solo come mera ipotesi, i rapporti collusivi tra «mafia-politica-affari». Con il rischio che risulti sempre più chiaro a tutti il ruolo di subalternità delle mafie ai vari apparati delle Istituzioni e dell’alta finanza e, quel che più forse disturba, alla Massoneria, secondo la stessa prospettiva investigativa di Giovanni Falcone, il quale partendo dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta aveva capito, sin dal 1984, come la Massoneria rappresenti il «collante» dei vari poteri criminali con la politica e le istituzioni, come tra gli altri ha confermato l’ex magistrato e membro della Commissione Parlamentare Antimafia, Ferdinando Imposimato.
La terza novità è che i fatti descritti da Saviano sono stati raccontati in televisione, per la prima volta, di fronte ad oltre 9 milioni di telespettatori, riuscendo ad entrare nelle case di tutti con una forza narrativa dirompente, capace di perforare il silenzio di regime e la manipolazione della storia d’Italia degli ultimi 150 anni sul rapporto tra Stato, mafia, massoneria, servizi segreti, su cui nessun testo, anche accademico, mai ci ha sufficientemente illuminato né forse mai lo potrà, per lo meno sino a quando non inizieremo a riscrivere la storia. [Storia che, come scrive Honoré de Balzac, in “Le illusioni perdute”, non è mai quella che ci viene raccontata, ammonendoci che: “vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, la storia ad usum delphini, e la «storia segreta», dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa”.] … Intrisa di sangue, intrighi, corruzione, costellata da morti misteriose, scandali inenarrabili, collusioni, sete di dominio, come è appunto quella delle massomafie.
A smuovere gli apparati statuali e dei partiti è infatti il timore che fatti sinora noti a pochi addetti ai lavori vengano largamente conosciuti dalla grande massa dei «governati», aprendo loro gli occhi e intaccando l’immagine della Lega “dura e pura” e delle Istituzioni, non il fatto ben più grave che la Lega e le Stato possano essere scesi a patti, al pari degli altri partiti di regime, con le «massomafie», come pare anche emergere con sempre maggiore nitidezza dagli sviluppi delle indagini sulle stragi del ‘92-93, che colpirono il nord e centro Italia, mirando al cuore delle capitali artistiche, economiche e politiche del Paese.
2. UNA BREVE PREMESSA: COSA SI INTENDE PER «MASSOMAFIE» ?
Il termine sincretico «massomafie» non viene quasi mai utilizzato dai mass media e, stranamente, anche dal ben informato Saviano, nonostante sia stato coniato da uno dei più eminenti studiosi del fenomeno, ovvero dal Prof. Giuseppe D’Urso, eroe sconosciuto, Presidente per la Sicilia dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e docente universitario che, dagli anni ’80, per primo, grazie alle sue ricerche, svolte in ambito istituzionale, svelò lo stretto connubio fra mafia, massoneria e sistema giudiziario, quale «collante» del controllo politico-economico-mafioso del territorio, denunciando inascoltatamente i cavalieri catanesi, i magistrati corrotti al loro servizio, gli appalti e le connivenze politiche-affaristiche, indicandoci che le mafie, ieri come oggi, non sono una patologia tipica delle Regioni del Sud Italia, ma un vero e proprio «braccio armato» di un regime corrotto, un «male endemico» diffuso e istituzionalizzato, protetto e organizzato su basi ben precise, espressione di una parte consistente della classe dirigente locale e nazionale. Quella che, negli ultimi decenni, sino alle più recenti vicende sulla loggia P3, è emerso essere, in maniera sempre più nitida, collegata a doppio filo, a consorterie di stampo massonico, cricche, gruppi occulti di pressione, Opus Dei, Cavalieri di Malta, Illuminati, Bilderberg… [“Massomafia: “Mi dicevano di lasciar perdere”. In onore di Giuseppe D’Urso”] (3).
Cancro con cui lo Stato Italiano pare abbia deciso di convivere da almeno 150 anni, tanto da concepirsi la teoria del «Doppio Stato»: da una parte politici, uomini delle istituzioni e forze dell’ordine, imprenditori e magistrati che vivono in simbiosi con massoni e mafiosi e, dall’altra, la parte sana della magistratura, delle istituzioni, della politica e della società civile che li contrasta, a rischio della propria vita. Dualità che, perpetuandosi nel tempo, senza decisivi strumenti di contrasto, ha permesso il consolidamento delle «massomafie», la cui esistenza è comprovata da una fitta sequenza di atti giudiziari, deposizioni di pentiti, sentenze, relazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia e letteratura giuridica che, storicamente ne descrivono le cause, la genesi, l’evoluzione e le connivenze istituzionali. A riguardo, basti ricordare che il primo grande omicidio massomafioso dell’ex direttore del Banco di Sicilia, Emanuele Notarbatolo, risale al lontano 1893, mentre la prima effettiva legge contro le associazioni mafiose viene promulgata quasi cent’anni dopo, solo nel 1982! Consentendo peraltro alla mafia di fagocitare lo Stato e imporre le proprie regole di morte.
Dallo sbarco in Sicilia, è assodato, infatti, come ci indica la ricca storiografia sulla mafia, che si stabilirono una serie di rapporti organici fra Stato, Servizi segreti, Cosa nostra e Massoneria, i cui referenti politici occulti non furono mai colpiti, neppure dal Prefetto Mori, tanto da affidare il mantenimento dell’ordine nell’isola a personaggi del calibro di Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini, sovrano della mafia insulare e interlocutore di alte cariche dello Stato, mentre il boss Vito Genovese, nonostante ricercato dalla polizia statunitense, divenne l’interprete di fiducia di Charles Poletti, capo del comando militare alleato in Italia. Guido Lo Schiavo, ex P.G. presso la Corte di Cassazione, nelle sue memorie, a conferma del patto masso-mafioso, scrisse: “Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è un’inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la giustizia e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice”. Aggiungendo: “Si sono avute di recente, in Sicilia, prove di un affiancamento della mafia alle forze dell’ordine”. “Oggi si fa il nome di un autorevole successore alla carica tenuta da don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto delle leggi dello stato e del miglioramento sociale della collettività”… (In “Piccola Pretura”, dalla cui trama Pietro Germi trasse spunto per realizzare il film “In nome della Legge”).
Rapporti organici che si accentuarono dalla fine degli anni ’60, avvicinando ai santuari dei poteri occulti, anche la ‘Ndrangheta, le cui analogie e i tratti distintivi con la Massoneria e la Mafia siciliana sono insiti ancestralmente nei similari modelli organizzativi e rituali delle associazioni segrete, sin dall’800, allorquando la Sicilia era la regione italiana a più elevata presenza massonica, munita di una concezione e spiccata propensione alla opacità del potere, che ha favorito la crescita delle massomafie sino ai giorni nostri, aprendosi alle altre mafie territoriali, tra cui Camorra e Sacra Corona che ne hanno assimilato i modelli. D’altronde, la funzione delle solidarietà massoniche e corporative tra professionisti, magistrati, notabili e uomini d’affari è del tutto analoga a quella della solidarietà mafiosa tra personaggi legati a gruppi diversi o anche avversi, situati in diversi continenti, capaci di creare un campo di collegamenti, reciproche influenze, scambi di favori e vantaggi per questo tipo di «moderna criminalità» geopolitica ed etnosociologica, che ha potuto radicarsi solo grazie alla dilagante «illegalità politico-istituzionale», ovvero all’assenza di contrasto e al vuoto di potere lasciato dallo Stato.
A metà anni ’90, tale impostazione teorica e definizione vennero avvallate anche dagli inquirenti, con particolare riferimento alle indagini del Procuratore di Palmi, dr. Cordova che, a partire dall’operazione “Olimpia”, accertando un ampio quadro di connessioni e di unità d’intenti tra organizzazioni criminali e ambienti massonici, fecero entrare d’imperio il termine «massomafia» nel lessico comune e giudiziario, definendo la massoneria deviata come «il tessuto connettivo della gestione del potere», e ciò sia per la natura che per il numero delle attività illecite e interessi accertati, attuati attraverso la collusione di soggetti legati alle istituzioni e alla magistratura, sia per la qualità e il numero dei personaggi coinvolti, tutti occupanti appunto posti di potere, e costituenti «un enorme partito trasversale ramificato non solo in tutto il territorio nazionale, ma collegato con corrispondenti o analoghe organizzazioni in tutto il mondo». [“Massomafia. ‘Ndrangheta, politica e massoneria dal 1970 ai giorni nostri”, E. Fantò, Koine Ed.] (4).
Il P.M. di Aosta, David Monti, che svolse importanti indagini sulle massomafie, le definì: «un intreccio di membri di associazioni segrete e di appartenenti a istituzioni perfettamente legali che si incontrano in punti off shore, cioè territori al di fuori della giurisdizione italiana». Precisando, anche grazie alla sua profonda conoscenza, quale ex massone, che: «non esistono solo le società off shore che proteggono i flussi finanziari illegali, ma anche le “off shore massoniche”, veri punti nevralgici, con il ruolo non di cospirazione ma di interferenza che spesso significa condizionamento» (5).
Più recentemente, a parlare di Massomafia sono gli atti dell’inchiesta del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, «Why Not», che lo hanno portato a concludere come “gli intrecci affaristici tra politica, imprenditoria, massoneria e poteri occulti rappresentano ormai un sistema collaudato. […] Emerge da esso la spartizione del denaro pubblico, il finanziamento ai partiti, il ruolo di lobby e poteri occulti deviati“… (6).
Seguito dal Gip di Milano, Clementina Forleo, la quale ha dichiarato che: “Il cosiddetto scontro tra procure, che scontro non è stato, trova le sue origini nei nervi che si sono toccati a Catanzaro. Perché al di là della persona di De Magistris, dei suoi possibili errori, dei suoi limiti umani e difetti, se non avesse toccato determinati tasti non staremmo certamente a parlare del caso De Magistris». [“La Massomafia dietro la guerra tra procure. Parla Clementina Forleo”: www.avvocatisenzafrontiere.it/?p=1917 (7)].
Per una visione geopolitica del concetto d’«illegalità sociale» come veicolo di proliferazione del consenso e «poteri globali», vedi anche Zigmunt Bauman teorico della postmodernità, che afferma come l’accettazione della violenza e dell’illegalità da parte di larghi strati della popolazione “è sicuramente un’istanza che ci riporta ad un ambito principalmente politico”. Aggiungendo che: «l’esercizio della violenza ed il controllo territoriale da parte delle reti criminali, si sono affermati laddove vi è stata un’assenza istituzionale marcata, che, lasciando di fatto un vuoto di potere, ha lasciato spazio a processi che sono stati definiti di «destrutturazione politica», ovvero alla «insorgenza di gruppi “altri”, rispetto agli Stati che hanno potuto creare sistemi politici paralleli e parastatali». Cioè quelli che nella moderna realtà geopolitica italiana qui individuiamo nelle «massomafie», definizione solo grazie alla quale possiamo sviluppare una corretta politica di contrasto alla criminalità organizzata, basata sulla conoscenza dell’effettivo soggetto contro il quale muovere la nostra azione, penetrando la sua evoluzione e continua metamorfosi, le sue strutture e articolate ramificazioni, nell’organizzazione statuale e finanziaria del sistema economico-produttivo, nella politica, nei rapporti internazionali con le mafie esogene e i servizi segreti, smettendo di girare a vuoto in sterili operazioni di facciata contro i «mulini a vento» delle vecchie organizzazioni criminali, governate da semianalfabeti, e le favole dei “pizzini” e del «capo dei capi», che manovrerebbero stragi di magistrati e raffinate strategie di inabissamento delle mafie. [“La solitudine del cittadino globale”, Z. Bauman, Feltrinelli, 2002 (8)].
Conclusivamente, possiamo definire le «massomafie», come il «nuovo paradigma» con cui analizzare la «moderna criminalità» che, dalla fine del secolo scorso, non è più solo mafiosa, ma politica, economica, istituzionalizzata, collegata all’alta finanza, ai servizi segreti, alla massoneria internazionale, ai circoli esclusivi del potere, alle multinazionali del crimine, che hanno saputo usare le leggi della politica e dell’economia, prive di regole etiche, assoggettando governi e popoli, a cui impongono la loro subcultura dell’ideale del profitto e dell’associazionismo a delinquere di stampo lobbystico massonico, produttivi solo di morte, distruzione, miseria, sfruttamento, riduzione in schiavitù e assenza di libertà.
In altri termini, le massomafie sono il «collante» del controllo politico-economico-mafioso del territorio, punto di interconnessione per ogni affare lecito e illecito, dall’aggiudicazione dei grandi appalti all’aggiustamento di un processo, dall’assegnazione dei finanziamenti pubblici alla capacità di interferire sugli incarichi giudiziari, mediante il quale, in un’ottica di cointeressenze, intimidazioni, isolamento e violenza fisica nei confronti di chi si oppone, costruire vincoli di reciproca disponibilità, scambi di favore e ricatti, finalizzato ad asservire le istituzioni e la magistratura, interferendo, per questa via, sulle funzioni legislativa e amministrativa, nonché sull’esercizio della giurisdizione.
Attualizzando la definizione del Prof. D’Urso: “un gruppo sociale organizzato chiuso, all’interno del quale, nell’ambito di un sistema economico e sociale, privo di controlli e valori etici, confluiscono una complessità di sottogruppi eterogenei, con differenti qualità, interessi particolari e status, tra i quali si stabiliscono legami e processi di interazione, sia spontanei che per costrizione esterna, sia di persona che a distanza, che hanno come fine l’accumulo e la gestione per i propri affiliati di enormi ricchezze non lavorative e di attività criminali, nonché l’assegnazione di cariche istituzionali, appalti, finanziamenti pubblici, avvalendosi di scambi di favori, corruzione, ricatti, intimidazione morale e violenza fisica, legando i suoi appartenenti con regole di subordinazione e di morte, mediante un processo di adeguamento continuo a quello del sistema economico e sociale a cui si riferisce“.
3. IL «PACTUM SCELERIS» TRA STATO E MASSOMAFIE CHE GLI ITALIANI NON DEVONO CONOSCERE, IN GRADO DI FARE CROLLARE IL SISTEMA DEI PARTITI.
Alla luce di queste premesse non vi è chi non veda che il patto tra «Stato e massomafie», dal quale storicamente emerge l’interazione tra organizzazioni criminali e istituzioni, debba continuare a venire celato agli elettori italiani, non solo dalla Lega, ma da tutta l’attuale classe politica e dirigente, la quale mai potrebbe ammettere di averlo siglato od essersene resa complice, tacendo e legittimando l’operato dei poteri forti e occulti, che hanno portato le ‘ndrine ad impadronirsi del nord, ramificandosi nella politica, nell’economia e nelle forze dell’ordine, condizionando gli appalti, la vita democratrica e cancellando lo Stato di diritto. Con il beneplacito di magistratura, C.S.M. e massime cariche istituzionali, inclusa la stessa Commissione Parlamentare Antimafia che, dal 1962, nell’alternarsi delle Legislature, pur avendo poteri d’inchiesta similari a quelli della magistratura, si limita, da quasi 50 anni, con grande sperpero di risorse pubbliche, ad osservare passivamente l’evoluzione del fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari anche straniere, senza prendere iniziative significative volte all’effettivo contrasto della massomafie. [Ndr: La Commissione Bicamerale d’inchiesta, istituita con Legge n. 1720/1962, è attualmente presieduta da Pisanu, già coinvolto nella P2 e ritenuto vicino alla P3 di Flavio Carboni – Cfr. “Pisanu. Una carriera da Piano Rinascita. Dai rapporti con la P2 alla Presidenza dell’Antimafia” – www.avvocatisenzafrontiere.it/?p=1897 (9) ].
Situazione che non sembra infatti indignare il Ministro dell’Interno e i politici della seconda Repubblica, i quali invece di allarmarsi, prenderne atto, far pulizia all’interno degli apparati di appartenenza, e organizzarsi per combattere la moderna criminalità dei colletti bianchi di stampo «politico-istituzionale-massomafioso», che lo Stato ha permesso insinuarsi nelle sue viscere, fino a fondersi nel tessuto sano della società civile, preferiscono indignarsi contro Saviano o chi all’occorrenza denuncia il fenomeno, ivi compresa la parte sana della magistratura, percependoli come elementi di disturbo e discredito delle istituzioni.
Verità storiche inenarrabili e destabilizzanti, che fanno girare l’economia massomafiosa, nei cui interessi occulti e inconfessabili sono racchiusi i tanti misteri e stragi d’Italia, che secondo la filosofia dominante, improntata al culto delle istituzioni, è bene continuino a venire tenuti segreti agli italiani, poiché in grado di fare crollare la credibilità dello Stato e quel che più conta per i clan elitari del regime occulto, lo stesso sistema dei partiti, espressione di una concezione arcaica e autoritaria dello Stato, incapace di superare la dogmatica ottocentesca dell’ideologia liberale dello Stato di diritto per assumere il modello democratico-costituzionale, ove sugli spesso oscuri superiori interessi dello Stato, unico interprete della volontà popolare e degli interessi generali del Paese, prevale la Sovranità dell’ordinamento costituzionale e giuridico, quale condizione di equilibrio di una società pluralista.
Fatti che, quale Onlus anticorruzione e antimafie andiamo vanamente denunciando da più di 25 ANNI, in ogni sede, alle massime cariche dello Stato e alla magistratura, la quale, senza alcuna indagine, anziché tutelare le parti più deboli che si rivolgono fiduciosamente all’Autorità Giudiziaria, trasforma documentate denunce, in ritorsive quanto intimidatorie condanne per “diffamazione”, “calunnia”, “oltraggio a magistrato”, e altri inesistenti reati di natura ideologica, costringendo i cittadini onesti che hanno avuto il coraggio di esporsi, a divenire vittime di una duplice forma di prevaricazione massomafiosa, ovvero a spendere la propria vita a difendersi dalla giustizia asservita ai poteri occulti, per cui io stesso, a fronte delle mie più che legittime attività di denuncia, quale esponente della società civile, pur non avendo mai fatto nulla di male, se non denunciare l’esistenza di tali sistemi, tipici delle peggiori dittature, rischio di finire in carcere, avendo collezionato in svariate centinaia di procedimenti-farsa, già ben 10 anni di reclusione! [“Chi è il nostro Presidente?” Art. cit.] (1).
Del patto perverso tra Massoneria, mafia, politica e magistratura per spartirsi i proventi derivanti dalle attività criminali, dagli appalti e da altri traffici leciti e non, in cambio di impunità, d’altronde ne parlano molto poco tutti, anche lo stesso Saviano, seppure tale scellerata alleanza rappresenti il «lato oscuro della società civile» che si frappone alla legalità, e risulti storicamente documentata dagli atti di indagine degli investigatori, con particolare riferimento alle denunce dei migliori magistrati antimafia, come Salvo Boemi, Roberto Pennisi, Agostino Cordova, Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo, tutti minacciati di morte, delegittimati e/o messi a tacere dalle stesse istituzioni e poteri occulti che a ragion veduta hanno sinora accusato del tutto inascoltatamente, come da anni andiamo a nostra volta segnalando ai lettori. [“$tato, mafia, Ma$$oneria, come unico $istema”, II parte, www.lavocedirobinhood.it/Articolo.asp?id=132] (6).
Senza parlare poi delle inchieste insabbiate sulle logge massoniche, completamente dimenticate dai media, seppure l’allora Procuratore di Palmi, Agostino Cordova, fosse stato clamorosamente boicottato con metodi tipicamente «massomafiosi» e delegittimato dalla diretta discesa in campo dell’ex Presidente della Repubblica Cossiga (massone da generazioni), il quale si spinse al punto di regalare, in segno di sfida, al Procuratore della Repubblica che chiedeva gli elenchi degli iscritti alle logge, un cavalluccio a dondolo in legno, invitandolo a ben altri “giochi”… (come a dire in linguaggio simbolico: “la Massoneria non si tocca!”). Ciò, mentre l’Arma dei Carabinieri, la Polizia Giudiziaria e la Guardia di Finanza, giungevano a rifiutare, dietro pressioni dall’alto, di dare esecuzione all’ordine di perquisizione della sede del “Grande Oriente d’Italia”, a Roma, ove l’allora Gran Maestro Giuliano Di Bernardo negava di consegnare le liste degli affiliati, tra cui figuravano insospettabili uomini delle istituzioni, politici di ogni schieramento e importanti nomi dell’imprenditoria italiana, del giornalismo e del mondo accademico, tuttora in auge. [Si rimanda alla seconda parte di “$tato, mafia, Ma$$oneria, come unico $istema” – Art. cit. (6) ].
Il rapporto tra Stato, mafia e Massoneria è infatti il nodo nascosto vero e proprio tabù su cui poggiano buona parte dei maggiori scandali e misteri italiani, dalla formazione del Regno d’Italia ad oggi e dell’incredibile sviluppo negli ultimi 40-50 anni delle moderne organizzazioni criminali massomafiose nel tessuto sano della società civile e dell’economia, che rende normale ciò che invero non lo è, ovvero complice del male, anche chi finge di non accorgersi che le istituzioni e la giustizia remino di norma contro chi denuncia e combatte le massomafie, come accadde tra i tanti all’integerrimo Procuratore Cordova, vergognosamente delegittimato dalle massime cariche dello Stato (Cossiga, Martelli, D’Alema), il quale a partire dalle relazioni tra mafia e politica, aveva individuato le trame della connection più pericolosa, portando alla luce, sulla sola base delle sue indagini, cioè senza l’ausilio di pentiti, «l’esistenza di un «superpotere», quello che la mafia, e settori della politica e dell’alta finanza insieme a oscuri apparati dello Stato hanno intrecciato con la massoneria deviata, anche fuori del nostro Paese». [“Oltre la Cupola, Massoneria, mafia, politica”, F. Forgione e P. Mondani, Prefazione Stefano Rodotà, Rizzoli – (10) ].
Dagli anni ’70, la ‘ndrangheta – al pari della mafia – cominciò infatti a considerare la massoneria come un mezzo per entrare in contatto con le istituzioni in maniera rapida ed efficace. Fu così che i boss decisero di entrare massicciamente nelle logge, diventando essi stessi massoni, e che la ‘ndrangheta iniziò la sua poderosa scalata alle istituzioni dello Stato, che la porterà a raggiungere l’attuale potenza economico-militare.
E’ questa nuova strategia a permettere ai boss di entrare in contatto con imprenditori, uomini delle istituzioni, forze dell’Ordine, magistrati, notai, medici e baroni universitari, stringendo patti d’affari e legami di “fratellanza”, che consentiranno a personaggi come i capo-bastone Antonio Nirta e Giorgio De Stefano, di muoversi con disinvoltura all’interno di apparati nevralgici dello Stato, come i servizi segreti, ma anche, di gruppi eversivi non solo dell’estrema destra, coi quali attueranno attentati e stragi per lo più rimaste impunite.
Dopo il fallito colpo di Stato del Principe Borghese e la rivolta per Reggio capoluogo nacque la “Santa”, una enclave in seno alle ‘ndrine per meglio gestire il flusso di finanziamenti miliardari che si stavano riversando sulla Calabria dalla Cassa per il Mezzogiorno, come ricostruisce più diffusamente Nicola Gratteri, in “La malapianta” [Mondadori, 2010, (11)]. A riguardo, racconta il collaboratore di giustizia Filippo Barreca: “in Calabria esisteva sin dal 1979 una loggia massonica coperta a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e… ‘ndranghetisti. Questa loggia aveva legami strettissimi con la mafia di Palermo cui doveva rendere conto… questo collegamento con i palermitani era necessario perché il progetto massonico non avrebbe avuto modo di svilupparsi in pieno in assenza della “fratellanza” con i vertici della mafia siciliana, ciò conformemente alle regole della massoneria che tende ad accorpare insieme i centri di potere, di qualunque matrice. Posso affermare con convinzione che, a seguito di questo progetto, in Calabria la ‘ndrangheta e la massoneria divennero una “cosa sola”». [Sentenza 19/1/99, Tribunale di Reggio Calabria, Corte d’Assise, procedimento penale “Olimpia” (12)].
La ‘ndrangheta diventa così una potenza non solo militare, ma economica, imprenditoriale, politica ed elettorale, interlocutore imprescindibile per ogni sorta di affare e malaffare, per ogni consultazione elettorale, come comprovato dalle indagini dell’Operazione “Olimpia” e dalle dichiarazioni del pentito Giuseppe Albanese che, già nel 1974, riferì di un incontro avvenuto in una villa della famiglia Borghese, lungo la Costa degli dei, a cui parteciparono i maggiori boss della ‘ndrangheta, membri dei servizi deviati, Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, Lino Salvini, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, accompagnato dai massoni marchesi Felice e Carmelo Genovese Zerbi, dai Generali Maletti e Miceli, dall’Ammiraglio Birindelli e da Edgardo Sogno (mentre la villa accanto era del piduista Bruno Tassandin, allora amministratore delegato del Corriere della Sera, controllato da Licio Gelli, Vaticano e Banco Ambrosiano).
Il notaio Pietro Marrapodi fiduciario delle logge calabresi ed ex Grande oratore venne assassinato per avere rivelato agli inquirenti i segreti della Massoneria, che per metterlo a tacere per sempre simulò, secondo i rituali massomafiosi, un finto suicidio mediante impiccagione. Il notaio che aveva persino mandato un esposto al C.S.M., denunciando i giudici corrotti, confessò di avere suggellato vari atti notarili di molteplici società scellerate che “legavano massoneria, ‘ndrangheta e magistratura”, consegnando di persona a Roma, all’Ispettorato del Ministero di Giustizia, un dettagliato memoriale contenente l’elenco degli affari degli affiliati al sodalizio siglati tra rappresentanti di ‘ndrangheta, massoneria e istituzioni e le «percentuali di utile» da spartirsi con i magistrati. [“Massomafia. ‘Ndrangheta, politica e massoneria…”, Op. cit.] (4).
Secondo l’Eurispes, le ‘ndrine, oggi avrebbero un fatturato di 44 miliardi di euro, pari al 2,9% del prodotto interno lordo a cui aggiunge il sostituto procuratore Gratteri vanno aggiunti i profitti maturati dal riciclaggio di denaro sporco. La droga, nel fatturato della ‘ndrangheta, incide nella misura del 62%, con un ricavo stimato di 27.240 milioni di euro all’anno, cioè il 55% in più rispetto a quello di Finmeccanica, gigante dell’industria italiana.
4. I SILENZI DI SAVIANO E DEGLI INTELETTUALI SULLO «STATO OCCULTO». IL RUOLO DELLA MASSONERIA E LE COMPLICITA’ SECOLARI DELLA MAGISTRATURA
Fatti quelli appena narrati che fanno parte della storia giudiziaria del Paese e che Saviano e tutti coloro che studiano le mafie dovrebbero ben conoscere, anche perché “Olimpia” fu la più importante e imponente operazione mai compiuta contro la ‘ndrangheta – in seguito denominata secondo i pentiti “Cosa Nuova” -, in cui furono coinvolti massoni, esponenti di An e Forza Italia, oltre ad un componente del C.S.M., referente delle cosche per aggiustare i processi in Cassazione, che mise in luce, già a partire dai primi anni ’90, l’esistenza di un vasto progetto massomafioso per la separazione delle regioni meridionali dal resto del Paese, con l’avvallo di settori dei servizi segreti.
Saviano non dovrebbe pertanto stupirsi se, nonostante tutte le inchieste giudiziarie, viga ancora l’arcano «principio dell’intangibilità» dei rappresentanti dei poteri criminali che possono continuare a controllare il territorio da nord a sud del Paese, solo grazie alla collusione di intranei ai centri vitali di comando della magistratura, sino alla Suprema Corte di Cassazione e ai Palazzi romani, tra cui lo stesso C.S.M. e i due rami del Parlamento, invasi sin dal XIX secolo da un’elevata concentrazione massonica che, oggi, solo un’indagine indipendente di organismi internazionali, potrebbe riferirci sulle sue esatte dimensioni e connotazioni massomafiose, tenuto conto del fatto che, sino ad ora, ogni inchiesta della Magistratura italiana che abbia lambito la massoneria è stata stroncata sul nascere, trucidando o delegittimando quegli stessi magistrati coraggiosi, solo per citane alcuni, da Vittorio Occorsio, Gaetano Costa, Ciaccio Montaldo, Bruno Caccia, Carlo Palermo, Livatino, Cordova, David Monti, Falcone, Borsellino…, sino a De Magistris, che hanno cercato di far luce sulle attività sommerse di logge massoniche, Gladio, Opus Dei, Cavalieri di Malta e altri centrali di potere occulto, nella sostanziale ostilità delle istituzioni e disinteresse di media e intellettuali italiani, per lo più espressione di interessi particolaristici delle lobby politico-affaristiche che, attraverso fittizie maggioranze e false opposizioni, si alternano al governo del Paese, nel rispetto delle perverse dinamiche degli stessi poteri trasversali occulti, in grado di condizionare la vita democratica.
E’ storicamente comprovato, infatti, che già dagli albori del Regno d’Italia, quando la Massoneria iniziò a perdere il proprio spirito propulsivo e innovatore che l’aveva caratterizzata dalla rivoluzione francese, sino al Risorgimento italiano, le «obbedienze» avevano massicciamente invaso la stampa, la magistratura e l’attività legislativa, corrompendone le attività, esattamente come oggi, calcolandosi sin dai primi passi dello Stato unitario che oltre il 60% dei parlamentari (ben 300 su 505) fossero apertamente massoni, di cui due divennero Presidenti del Consiglio: De Pretis per 11 anni e Crispi per otto. Esattamente, come oggi Berlusconi (P2 – Opus Dei), Prodi (Gran Loggia di San Marino), Andreotti, Cossiga (P2 – Gladio – Ordine di Malta), e i tanti ministri, senatori a vita, governatori di Banca d’Italia, Presidenti della Repubblica, uomini d’affari, industriali, direttamente o indirettamente collegati a Massoneria, Opus Dei, Cavalieri di Malta e altre consorterie paramassoniche consimili, come Bilderberg e Trilateral Commission, in cui spesso si intrecciano gli stessi nomi, da Agnelli (loggia di Montecarlo – Bilderberg), Leone, Ciampi, Spadolini, Craxi, Dini, Maccanico, Cicchitto, Pera, Mastella, Pisanu (P2), Cefis, Carli, Cuccia, De Benedetti, Ligresti, Cervetti, Spagnolo, Sindona (Giustizia e Libertà), Casini, Ciampi (loggia degli Incamminati), Dell’Utri, Bertolaso, Letta, Fazio, Formigoni (Opus Dei), Tremonti, Visco, Tronchetti Provera, Profumo, Draghi, Padoa Schioppa, Giorgio La Malfa, Martelli, Emma Bonino, Veltroni, Prodi, De Bortoli (Bilderberg)…
Intangibilità che riguarda la stessa casta della magistratura, quella allineata, ovviamente, sempre pronta ad autoassolversi e indulgente con i propri rappresentanti collusi o contigui agli interessi delle massomafie, i quali a volte solo per viltà e carrierismo, pur sapendo preferiscono nascondere la testa sotto terra, insabbiando e/o vanificando ogni indagine scomoda ai “fratelli” e ai poteri forti, giungendo molto spesso ad incriminare per “calunnia o diffamazione” chi osa denunciarne i crimini e i legami, come accadde al povero notaio Marrapodi, prima arrestato eppoi lasciato uccidere dalle cosche.
Marrapodi fu infatti il primo pentito ad indicare anche numerosi magistrati come massoni collusi. Dopo le sue scottanti rivelazioni Pietro Marrapodi chiese alla Procura di Reggio e alla Direzione Nazionale Antimafia di avere una scorta che gli fu però negata. Come immaginabile, una mattina il suo corpo fu trovato senza vita nello scantinato della sua abitazione, impiccato. Il finto suicidio – more solito – fu velocemente archiviato come “suicidio”, ma i dubbi permangono ancora oggi, come in tutta la catena di altri suicidi-omicidi, inscenati dalle massomafie e dai servizi segreti, di cui sono insanguinati gli ultimi 150 della triste e ignobile storia d’Italia. [Il procuratore Cordova prese spunto da questi eventi per dar vita alla delicatissima inchiesta denominata “mani segrete”, poi pure soffocata nel silenzio generale anche delle associazioni antimafia che ben poche affrontano tali temi, essendo probabilmente in molti casi esse stesse espressioni di lobby vicine alla massoneria, al Vaticano, alla Confindustria, agli apparati dei partiti o altri poteri occulti].
Storicamente, il sistema criminale-corruttivo politico ed economico, che fa capo allo «Stato occulto», e terreno di coltura delle massomafie, era già noto alla magistratura italiana, sin dalla relazione della Commissione d’inchiesta «Franchetti-Sonnino» del lontano 1875, ove si legge che: «la Mafia ha una grande influenza… i mali sono antichi…», ovvero che, già sotto il governo di Re Ferdinando, «la mafia si era infiltrata anche nelle altre classi, cosa che da alcune testimonianze è ritenuta vera anche oggidì…». [“Il fenomeno mafioso: dalla consuetudine secolare all’organizzazione manageriale”, di Giovanni Falcone, Antimafia 2000 (13)].
Figuriamoci oggi, dove ciò nonostante, dopo oltre 150 anni, si cerca ancora di individuare la mafia come un prodotto etnosociologico, legato alla cultura del Sud Italia, capeggiata da una cupola di semianalfabeti, in grado di progettare stragi di magistrati e raffinate strategie di inabissamento, quando il P.M. Vincenzo Macrì della DDA di Reggio Calabria, già nel 2008, affermava che: «Milano è oggi la vera capitale della ‘ndrangheta», aggiungendo significativamente che, tuttavia: «la politica sembra non accorgersene».
La politica, espressione dello «Stato occulto» – e, insieme a lei gran parte degli studiosi – hanno infatti per decenni diffuso fuorvianti stereotipi sulla mafia, fingendo di allarmarsi ogni qualvolta ci si trovava di fronte a delitti di mafia o di altre organizzazioni assimilabili (’ndrangheta, camorra, sacra corona).
Per allontanare l’opinione pubblica dalle vere cause, aumentando la disinformazione, venivano e vengono tuttora utilizzate espressioni mediatiche altrettanto fuorvianti, quali «recrudescenza del fenomeno mafioso» o «emergenza» (mafia, camorra, ‘ndrangheta…), laddove i delitti dell’una o dell’altra organizzazione criminale registrino un’escalation. Sembrano termini innocui, ma in realtà essi sottintendono una visione riduttiva e fuorviante, secondo cui la mafia esiste e rappresenta allarme sociale solo quando spara. Una visione che potremmo definire di tipo “congiunturale”. La mafia invece è un fenomeno continuativo, strutturale, «congenito allo Stato occulto», che svolge molteplici attività criminali e usa omicidi e stragi, secondo una logica di “violenza programmata“, la cui «mente» è spesso esterna ai clan e agli esecutori materiali. Anche l’espressione “guerra di mafia” è usata ad effetto, peraltro in maniera del tutto superficiale, senza cogliere che le maggiori guerre di mafia sono state storicamente il risultato di nuovi equilibri politico-mafiosi. In altri termini, si può dire: «la guerra di mafia come continuazione della politica massomafiosa con altri mezzi». Altre affermazioni molto diffuse: “i mafiosi si uccidono tra loro” oppure “sono fatti loro”. La morale retrostante è duplice: gli omicidi dei mafiosi sono come un fatto naturale, che non riguarda il tessuto sociale; il comportamento consigliato è di “farsi i fatti propri”, cioè la passività, l’astensione non solo dall’intervenire ma pure dal vedere e sentire.
L’omertà insomma. E poco importa che la DDA di Reggio Calabria già nel 2008 affermasse che «Milano è oggi la vera capitale della ‘ndrangheta», anche perché è stata la stessa magistratura milanese, non solo la politica a chiudere entrambi gli occhi, come d’altronde tutte le altre maggiori procure del Nord e del resto del Paese, dove la casta è ancora molto restia a toccare il cosiddetto “quarto livello”, sugli inquietanti intrecci tra massoneria, oligarchia bancaria, mafia, servizi di intelligence, politica e faccendieri internazionali, come già nitidamente messi in luce, sin dagli anni ’80, dall’allora Giudice Istruttore di Trento, Carlo Palermo, che subì un attentato dinamitardo a Trapani, da cui uscì fortunosamente indenne, perchè indagava su un ampio traffico di armi, droga, riciclaggio e finanziamenti illeciti, su cui poi indagarono anche i giudici Falcone e Borsellino, indagini che avrebbero ispirato la loro stessa morte. [“Il quarto livello”, Carlo Palermo, Editori Riuniti, 1996, (14)].
Le mafie, infatti, a dispetto della loro marcata radice territoriale, sono invero fenomeni ampiamente proiettati verso l’esterno. Basti ricordare gli accordi coi trafficanti colombiani, thailandesi, turchi, afgani per quanto riguarda il traffico di sostanze stupefacenti [oggetto del fulmineo blitz del Gico di Firenze nell’autoparco milanese della mafia che, sino al ‘92, aveva potuto prosperare da oltre 10 anni, all’ombra di illecite protezioni di forze dell’ordine e magistratura milanese, colluse con ambienti massonici lombardi], nonché con le mafie russe e dell’Est europeo per il traffico di esseri umani, armi e materiali sensibili, od ancora le intese con faccendieri internazionali e paesi sedi di paradisi fiscali e finanziari per il riciclaggio dei proventi illeciti, su cui nessuna seria indagine giudiziaria è mai stata avviata.
Il momento di consolidamento delle massomafie nelle aree del Nord Italia appare infatti quantomeno retrodatabile ai primi anni Ottanta del novecento, allorquando venne eseguita la condanna a morte dell’incorruttibile Procuratore di Torino, Bruno Caccia, il quale stava indagando sui “clan calabresi”, che si erano stanziati nel capoluogo piemontese, alleandosi con gruppi di mafiosi catanesi, con i quali si spartivano i profitti derivanti dal controllo di molteplici traffici leciti e non (imprese edilizie, esercizi commerciali, bische, etc.), ovvero di altre attività, apparentemente legali, tra le quali occorre sintomaticamente evidenziare quella relativa all’appalto della gestione del bar del Palazzo di Giustizia, assiduamente frequentato dai magistrati, da avvicinare, per aggiustare i processi o bloccare le indagini. La motivazione poi rivelata dal pentito Domenico Belfiore fu infatti, senza lasciare dubbi, che: «con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare». Non era insomma avvicinabile come altri più malleabili. Le indagini del magistrato cuneese si rivelarono infatti troppo incisive e dannose per la sopravvivenza dell’ndrangheta in Piemonte, tanto da spingere il clan Belfiore (o, meglio, la massomafia giudiziaria di riferimento) a ordinarne l’uccisione, perché – come si legge nella sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano, nei confronti dell’unico condannato, cioè il Belfiore: «questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza, la disponibilità o, addirittura, l’amicizia di alcuni magistrati». Sentenza sofferta, intervenuta solo nel ’92, dopo vari rinvii della Cassazione, che non ha peraltro messo in luce, oltre ai nomi e volti dei killer, anche i veri mandanti occulti dell’omicidio. C’è chi ha infatti ipotizzato che l’uccisione dell’altro magistrato sia maturata negli stessi ambienti giudiziari, dopo il suo rifiuto ad accettare la promozione a Procuratore Generale, mediante la quale si sarebbe inteso distoglierlo dalle indagini. [“Bruno Caccia. Il Procuratore ucciso dalla Massomafia che controlla la Procura torinese”: www.avvocatisenzafrontiere.it/?p=1932 (15)].
Crimini efferati, volti a minare l’ordinamento giuridico e la certezza dello Stato di diritto, che hanno evidenziato come, già dagli anni precedenti, la criminalità organizzata fosse concretamente riuscita ad inserirsi capillarmente, in un contesto politico economico sano, dialogando e scendendo a patti con la magistratura torinese. A riguardo, occorre ricordare, l’emblematico caso di Rocco Lo Presti, boss calabrese, recentemente deceduto, che era arrivato a Bardonecchia nel lontano anno 1963. Il primo mafioso inviato al confino al nord. Fu lui invece ad impadronirsi della città. Nel ’95 il Comune era già in mano ai mafiosi. Violenza, affari, cementificazione selvaggia, usura… e, champagne per festeggiare, come poi emerso dagli atti che portarono allo scioglimento del Comune di Bardonecchia e alla uccisione di Mario Ceretto, un imprenditore edile che, nel ’75, si rifiutò di assumere gli uomini proposti dal boss calabrese. Fatti per i quali il Lo Presti venne condannato anche in secondo grado a 26 anni di galera. Ma poi la Cassazione annullò tutto e sappiamo perché… [“Bardonecchia: Il primo Comune del Nord-Ovest sciolto per mafia”. www.avvocatisenzafrontiere.it/?p=1925 (16).
Complicità di cui nessuno infatti ha ancora il coraggio di parlare apertamente, che rivelano l’esistenza di un vero e proprio Stato nello Stato, che ben possiamo definire come «Stato occulto», preferendo gli intellettuali puntare il dito, prima sulla mafia, poi sulla camorra, ora sulle ‘ndrine, sebbene il connubio massonerie-mafia-politica-affari-centri vitali di comando della magistratura e delle istituzioni, servizi segreti inclusi, ben potrebbe spiegarci con ferrea logicità e aderenza alla realtà, anche attraverso l’analisi delle principali inchieste giudiziarie e parlamentari dal dopo guerra a oggi, «il perché dagli anni ’60, quando la mafia era sul punto di scomparire, le organizzazioni mafiose si siano invece consolidate sempre di più su tutto il territorio nazionale», tanto da essersi potute infiltrare nel tessuto sano della società industriale e dell’alta finanza, travalicando i confini nazionali e controllando immensi patrimoni quasi in ogni parte del mondo. Presa di coscienza che consentirebbe altresì di meglio spiegarci la ragione per cui i rifiuti che invadono la Campania siano divenuti un fenomeno che riguarda l’intero Paese, che parte dalle industrie delle ordinate e ipocrite Regioni del nord (Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria in testa), come ci ha ben spiegato lo stesso Saviano, fornendoci un puntuale elenco delle fonti di prova giudiziaria, ma senza affrontare il problema sottostante dei «poteri occulti» che traggono enormi profitti dallo smaltimento dei rifiuti tossici e da ogni altro traffico lecito e illecito, la cui mancata comprensione e denuncia impediscono di giungere alla soluzione dei disastri non solo ambientali che stanno soffocando il Paese e l’economia, nonché lo stesso Stato di diritto.
5. a questo punto due domande d’obbligo.
La prima: «Se la Lega è pulita, perché il Ministro dell’Interno Maroni ha reagito così seccamente al quasi ingenuo monologo di Saviano? [ove affermava con dati alla mano che: “la ‘ndrangheta cerca la politica per scalare il proprio potere… in Lombardia interloquisce con la Lega”]…».
La seconda: «Se è assodato che esistono le massomafie, almeno dagli anni ‘70, perché nessuno ne parla? Perché la maggior parte degli scrittori, giornalisti, politologi, sociologi, storici e accorti studiosi del fenomeno, pur sfiorando od entrando continuamente in contatto con lo scottante argomento, non pronunciano mai il termine «massomafia» e mostrano ritrosia e timori quasi reverenziali a parlare dell’organicità allo Stato e al sistema dei partiti dello «scellerato connubio» tra massonerie, mafie, politica, servizi segreti, affari e magistratura di regime che ha insanguinato l’Italia, lasciando il paese avvolto da misteri irrisolti da almeno oltre 40 anni? Perché non viene mai messo sufficientemente in luce il ruolo centrale svolto dalle varie «obbedienze» che continuano ad operare nell’ombra e dalla magistratura di regime, alle cui decisioni viene sempre attribuita insindacabilità di giudizio, anche quando appaiono essere affette da macroscopici vizi e falsa applicazione di norme di legge, ovvero l’esito di mercimonio o, contrarie al buon senso comune od, ancora, provenire da magistrati la cui lealtà alle leggi dello Stato è compromessa dall’appartenenza a logge o centri di potere occulto?» (il noto problema dell’incompatibilità derivante dalla «doppia loyalty»).
Alla prima domanda basterà rispondere con una riflessione molto semplice che alla fine dell’analisi che segue ci consentirà di rispondere anche al secondo quesito, apparentemente più complesso del persistente silenzio sull’esistenza, la natura e capacità di condizionamento della vita istituzionale, da parte delle «massomafie», termine a molti quasi del tutto ignoto o oscuro.
6. PADANI E PADRINI
La riflessione sul primo quesito si può riassumere in un’altra domanda molto semplice: «Con chi altri la ‘ndrangheta avrebbe mai potuto cercare di interloquire?»
Non è infatti la Lega a comandare le maggiori Regioni del nord con le benedizioni incrociate della potente “Opus Dei” e della massoneria laica, scese a patti, indicando agli elettori la nomina di svariate centinaia di sindaci, vicesindaci, presidenti di regione, province, Consigli di Amministrazione, segretari, sottosegretari, etc. condizionando appalti pubblici e quant’altro abbia a che fare con la lottizzazione delle cariche e del potere?
Ma fermarsi qui sarebbe riduttivo, come del resto ricordare la foto attenzionata dalla Dia, che ritrae il leghista Angelo Ciocca, Consigliere regionale al Pirellone (eletto con ben 19mila preferenze), incontrarsi con il boss calabrese-Avvocato Pino Neri durante la campagna elettorale per le regionali. Non ci vuole, infatti, molto acume per desumere che gli esponenti delle mafie cerchino entrature nella Lega e dove c’è amministrazione della cosa pubblica, anche se Bossi da Montecitorio ha sostenuto che “la lega è lontana dalla mafia e non riesce ad avere agganci con noi”. [Ciò, forse, senza aver prima consultato le liste di indagati del suo partito per sospette collusioni, né visto la foto che ritrae il boss-avvocato Pino Neri (poi arrestato), con il consigliere Cioccia, eletto con più preferenze della stessa “trota”, figlio di Bossi – quantità di consensi che ha stupito persino molti leghisti…].
Quanto invero pochi sanno o ricordano è che la stessa sede milanese della Lega di Via Bellerio fu l’esito di uno dei primi compromessi che scandisce il rapporto storicamente esistente tra «padani e padrini», insieme alla più nota «madre di tutte le tangenti», denominata per quanto interessa la Lega come tangente Patelli-Montedison, pari a 200 milioni di lire. Finanziamento illecito ai partiti, per cui tra gli altri, venne condannato lo stesso Bossi, insieme a Craxi, l’ex Sindaco di Milano Pillitteri e Luigi Bisignani, tessera P2 n° 203, potente Direttore Relazioni esterne del Gruppo Ferruzzi: il faccendiere-scrittore ex capo redattore dell’Ansa, che depositò la megatangente da ben 93 miliardi di lire presso la Banca Vaticana, donando a Bossi il suo libro dal titolo “Nostra Signora del KGB”, con una dedica molto speciale: “Al Presidente del Consiglio del futuro”… Oggi Luigi Bisignani, dopo essere stato al centro della inchiesta «Why not» per violazione della Legge Anselmi, è nella galassia dei lobbisti della «P3», venendo ritenuto dagli investigatori romani della Dia, come un punto di convergenza a livello alto degli uomini della “cricca” e dei personaggi della “banda larga” di Finmeccanica, tanto da essere considerato negli ambienti politici romani “consulente di Palazzo Chigi” e “Sottosegretario di Stato per interposta persona” (cioè la sua più nota compagna, Daniela Santanché).
Primi compromessi che suggellano da un punto di vista storico e giudiziario il patto della Lega lombarda con imprenditori legati alla criminalità economica massomafiosa.
Lo stesso benefattore della Lega di Bossi e del sistema dei partiti Raoul Gardini verrà “suicidato” in circostanze tuttora rimaste misteriose e da collegarsi alle confessioni del pentito Leonardo Messina, il quale rivelò al giudice Borsellino, poco prima di venire brutalmente trucidato dallo Stato occulto con la sua scorta, che: “Totò Riina i suoi soldi li tiene nella Calcestruzzi”… [“Gardini e i padrini” (17) e “Raoul Gardini e Gabriele Cagliari due falsi suicidi rimasti impuniti” (25) ].
In base a tali risultanze processuali e alla citata sentenza passata in giudicato per finanziamento illecito dei partiti è di indubbia evidenza che i soldi della mafia, investiti nella Calcestruzzi S.p.A. di Raoul Gardini, servivano anche a finanziare e creare entrature nella Lega, oltre che nel Comune di Milano, tramite l’ex Sindaco Paolo Pillitteri, che aveva sposato Rosilde, sorella di Craxi, entrati da protagonisti nella «Duomo Connection».
Ma vi è ben di più…
7. L’INCIUCIO SULLA SEDE FEDERALE DELLA LEGA NORD
Strana storia quella dell’immobile intestato alla Pontidafin, finanziaria della Lega, che l’acquisì, senza una lira di anticipo, contando sulla promessa dei futuri rimborsi elettorali, dalla Borromeo 90, controllata dalla Mondialtoce s.r.l., società di esiguo capitale, facente capo al faccendiere, Virginio Battanta, pluripregiudicato, che riciclò l’intero patrimonio immobiliare del finanziere siciliano, Filippo Alberto Rapisarda, ex socio di Marcello Dell’Utri [entrambi vicini allo stalliere di Arcore Mangano], il quale offrì i suoi appoggi alla Lega, scommettendo sulla sua vittoria elettorale e sulle sue influenti amicizie, tanto da avere ottenuto, senza alcuna gara, con una società creata ad hoc poco prima (la Ge.co.mi. srl), l’appalto dei lavori di restauro della facciata di Palazzo Marino a Milano, grazie alla dubbia sponsorizzazione del gruppo Ferruzzi-Montedison che come emerso dalle indagini della Procura di Caltanissetta riciclava i soldi della mafia siciliana.
Una tara poco conosciuta quella che lega la Lega Nord all’ex big del mattone Battanta, condannato per Tangentopoli, truffe e assegni a vuoto, ma dapprima per anni protetto dall’ex Procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli, seppure il faccendiere comasco, vicino all’ex Sindaco Pillitteri, fosse stato coinvolto sin dagli albori di mani pulite nelle inchieste su Mario Chiesa, venendo infine rinviato a giudizio dall’allora Procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio per “corruzione, falso e turbativa d’asta”, eppoi condannato dal tribunale insieme ad gruppo di altri immobiliaristi e faccendieri milanesi, per aver acquistato a prezzi irrisori case e terreni del Pio Albergo Trivulzio.
La vicenda della sede di Via Bellerio 41/44 a Milano, che la finanziaria della Lega acquistò ad un prezzo più che doppio rispetto a quello fissato nell’atto di compravendita, non può certamente essere sfuggita al suo leader storico Bossi, anche perché fu oggetto di un’altra inchiesta giudiziaria della Procura milanese e di una serie interrogazioni delle opposizioni che adombrarono sospetti sul fatto che la Lega avesse acquistato dal Battanta per 14 miliardi un immobile del valore stimato di appena 5 miliardi di lire, mentre la giunta dell’ex Sindaco Formentini dall’altra parte svendeva al faccendiere comasco per metà del valore l’immobile di Via Santa Maria in Fulcorina 19, sito in pieno centro, a due passi dalla Borsa.
La Lega negò gli intrecci tra la poco trasparente acquisizione della sede di Bellerio, oggetto di oscure contropartite, anche elettorali, ma i dubbi restano.
In particolare, perché il centrale immobile di Santa Maria in Fulcorina era oggetto di un annoso contenzioso in Cassazione con il Comune di Milano, di cui il Battanta vendendolo, tenne all’oscuro la società Irco la quale ignara di ciò accese un mutuo di 8 miliardi presso il Credito Commerciale, stipulando un’ipoteca di 12 miliardi. Giudizio che, ove non fosse provvidenzialmente intervenuta la giunta leghista del Sindaco Formentini, accettando un accordo capestro, con alte probabilità avrebbe potuto rendere irrecuperabile l’immobile e costare al disinvolto affarista comasco, l’accusa di truffa, tanto che il Battanta si trovò costretto ad impegnarsi, in caso di soccombenza, a riacquistare l’immobile, facendosi carico delle garanzie bancarie offerte dalla Irco, a fronte delle quali vantò la disponibilità di un mutuo fondiario proprio “sulle proprietà di via Bellerio 41 e 44“, girando, poi, tutte le operazioni di dare avere con la Irco sulla Republic National Bank of New York.
La stessa banca estera cui Battanta ricorre, guardacaso, anche per via Bellerio, futura sede federale della Lega Nord, ceduta a “babbo morto”, scommettendo, al pari del boss della «‘ndrangheta lumbard», Franco Coco Trovato, trapiantato a Lecco, di cui parleremo tra poco, sulla sua vittoria elettorale e gli introiti del finanziamento pubblico ai partiti.
Difficile non pensare che ci sia stato un inciucio anche elettorale che ha consentito alla Lega Lombarda di decollare, coinvolgente la stessa magistratura milanese, che ha sempre affossato od omesso di approfondire ogni indagine sulle collusioni tra politica, mafia, affari e massoneria, risultando molto indulgente nei confronti dello stesso Battanta e dell’altro faccendiere, amministratore della PontidaFin, Gianmario Ferramonti, che ha tessuto l’operazione della sede federale di Via Bellerio e la successiva ascesa della Lega Nord, come vedremo nel capitolo che segue…
8. IL SOGNO SECESSIONISTA DELLA MAFIA E QUELLO DELLA LEGA NORD: «PARLA UN’ALTRA LINGUA MA VUOLE LE STESSE COSE: VOTI E POTERE».
Quello che Saviano voleva significare è il rapporto che intercorre tra il federalismo della Lega e quello della mafia per la quale rappresenta uno dei prioritari obbiettivi strategici, posto che il decentramento dei poteri tra regioni consentirebbe alle organizzazioni criminali massomafiose [che, come abbiamo visto, già dalla discesa in campo della Lega, sono ben infiltrate nel Comune di Milano], di amministrare direttamente la “Cosa pubblica”, consegnando definitivamente l’Italia alle cosche: ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra, Sacra Corona Unita e Massoneria.
I punti di contatto tra il sogno padano e quello della mafia siciliana d’altronde sono davvero molti e collegati tra loro dalla capacità di infiltrazione, condizionamento e controllo del territorio delle massomafie già presenti al Nord almeno dagli anni ‘70. Nel ‘96, l’indagine Phoney Money rivelò in modo organico connessioni e rapporti tra mafia-politica-massoneria-servizi segreti. David Monti, titolare dell’inchiesta, dichiarò con amarezza che: “A quindici anni dalla scoperta della loggia P2, i poteri occulti sono vivi e vegeti e sono loro ad organizzare, se non veri e propri complotti, pericolose interferenze, per esempio riuscendo a bloccare inchieste considerate scomode”. [Il P.M. Monti venne infatti esautorato, come prima Carlo Palermo, Cordova, Falcone, Borsellino e, in seguito, Scarpinato, Ingroia, Lo Forte, Woodcock e Luigi De Magistris].
In quell’indagine emerse il ruolo di personaggi come Gianmario Ferramonti, arrestato dalla procura di Aosta perché ritenuto la mente di una truffa per 20.000 miliardi di lire con titoli falsi o rubati che coinvolgeva grandi banche internazionali. Ferramonti era già stato amministratore di PontidaFin., finanziaria della Lega Nord e collaboratore di Gianfranco Miglio, sin dal 1991, il quale secondo gli investigatori aveva ideato una struttura articolata formata da relazioni fra servizi segreti italiani e internazionali, massoneria e altri poteri occulti [Cfr.: Artt. cit. (5) – (18)].
Il pentito di mafia Leonardo Messina descrisse infatti una rete di rapporti fra la Lega Nord e la P2, tenuti in particolare tramite il prof. Miglio. A riguardo, non va dimenticato che la struttura prefigurata da Licio Gelli, oltre a prefiggersi il controllo e condizionamento della magistratura, come disegnata nel «Piano Rinascita», prevedeva contatti trasversali con tutti i partiti, sindacati, media, forze armate, servizi segreti, forze dell’ordine, nonché con tutte le organizzazioni criminali, tra cui mafia, camorra, ‘ndrangheta, come risulta dalle inchieste giudiziarie sul finto rapimento di Sindona, sul caso Cirillo, sulla strage del rapido 904, sul finto suicidio di Roberto Calvi, ecc.
Ferramonti, oltre ad avere fondato con Formentini, Pagliarini e altri la consulta economica della Lega, dando vita alla Pontidafin, di cui divenne amministratore, godeva di influenti amicizie nel Psi e con i massoni siciliani, tra cui i fondatori della Lega Meridionale, risultando in rapporti, secondo fonti giudiziarie, con personaggi vicini alla criminalità organizzata, soprattutto la ‘Ndrangheta.
Lo stesso Ferramonti si vantava aver dato un contributo determinante all’accordo tra Forza Italia, An e Lega Nord per le elezioni politiche del ’94. A riguardo, risulta infatti avere organizzato un incontro in un noto hotel romano, per decidere l’assegnazione del Ministero dell’Interno alla Lega, prima della formazione del Governo Berlusconi del ’94, a cui presero parte, oltre a Ferramonti, il Capo della Polizia di Stato Vincenzo Parisi, il faccendiere italo-americano Enzo De Chiara, Umberto Bossi e Roberto Maroni, che poi ebbe in effetti il ministero.
Alla luce dei fatti il ministro Maroni non avrebbe dovuto prendersela con Saviano che si è limitato a constatare, peraltro in maniera generica, che la ‘Ndrangheta ha agganciato la Lega. Anzi, se avesse la coscienza pulita con tutto il suo partito dovrebbe prenderne atto e invitare tutti i leghisti onesti ad aprire bene gli occhi, smettendo di fare finta di niente, e ad adoperarsi contro la penetrazione delle ‘ndrine negli appalti padani, facendo luce su chi sia il candidato della Lega Nord, sul quale, sin dal suo esordio, sarebbero stati convogliati i voti della ‘Ndrangheta, come di recente rivelato agli investigatori dal pentito Giuseppe Di Bella, legato al boss Franco Coco Trovato, entrato nel programma di protezione, che alla vigilia del grande exploit della Lega, nel 1990, invitava tutti gli affiliati a sostenere la campagna della Lega Nord, spiegando ai riottosi siciliani e calabresi che «la Lega parla un’altra lingua, ma vuole le stesse cose: voti e potere».
Quale Ministro dell’Interno, Maroni dovrebbe invece fornire tutti gli strumenti necessari alle forze dell’ordine e alla magistratura per fronteggiare il controllo del territorio da parte delle massomafie, facendo luce sulla catena di brutali esecuzioni che, proprio, a partire dagli anni ’90, hanno silenziosamente insanguinato la verde pianura padana, tra cui l’agghiacciante morte della povera Lea Garofalo – sciolta nell’acido – che viveva in pieno centro di Milano, sollecitando i Prefetti a non sottovalutare l’allarmante fenomeno, come ha già fatto il Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi – [e, prima di lui, l’ex Sindaco Pillitteri e l’ex Procuratore Generale Catelani, insieme all’ex Procuratore Borrelli] -, sostenendo omertosamente che «a Milano la mafia non esiste», ma a relazionare sulle commistioni di interessi e collusioni dei propri funzionari e degli stessi amministrazioni locali, onde fugare ogni dubbio per taluni come me, certezza, che il Governo della città sia nelle mani delle massomafie.
Invece, di lanciare una campagna per ripulire i partiti e le istituzioni, gli esponenti della Lega e del Governo se la prendono ottusamente con il dito che indica la luna, come nel caso del vicecoordinatore del Polo della Libertà, Marco Osnato, che ha annunciato la richiesta di revoca della cittadinanza onoraria a Saviano, ventilata a Milano, confermando di preferire l’intitolazione di una via a Bettino Craxi, cognato dell’ex Sindaco Pillitteri, vicino al gran benefattore della Lega, Virginio Battanta, il quale ultimo giova ricordare gli assicurò prima dell’exploit elettorale, l’attuale sede federale di Via Bellerio, consentendo alla mafia, non solo di entrare «in borsa» – come affermava Falcone – ma anche a Palazzo Marino e, dalla porta d’ingresso, grazie al restauro, a preteso titolo benefico, della facciata dell’edificio di P.zza della Scala che ospita il Comune di Milano, generosamente sponsorizzato dai corleonesi di Totò Riina, tramite la Ferruzzi-Montedison, altro munifico benefattore della Lega, al quale affluivano i capitali della mafia siciliana, derivanti dal narcotraffico e dalle tangenti sugli appalti.
Singolarmente, l’Ing. Battanta, quale realizzatore delle opere di restauro, è oggi divenuto presidente della Democrazia Cristiana pavese, ritornando a far politica e affari in Lombardia, anche con la pubblica amministrazione, nonostante una serie di condanne penali, truffe e maxi evasioni fiscali disseminate tra l’Emilia e la Toscana, che dovrebbero costituire motivi ostativi alla concessione d’appalti e licenze. Analogamente, anche Ferramonti, il quale ci scrive facendoci sapere che le accuse nei suoi confronti relative all’emissione di titoli falsi sono cadute ed è stato assolto, nel 2002, dopo il divorzio dalla Lega, è anch’egli rientrato in politica con la Democrazia Cristiana, di cui fa parte della direzione nazionale con l’incarico di responsabile delle relazioni esterne ed istituzionali. Si vede che oggi i faccendieri impuniti o blandamente perseguiti dalla magistratura di regime (sempre molto indulgente con i massoni) si ritrovano tutti lì…
Tutto ciò, per inciso, in un Paese in cui le maggiori «stragi di Stato» avvenute in pieno periodo Loggia P2, per la magistratura italiana, dopo oltre 40 anni, non hanno trovato colpevoli; circostanza che induce a ritenere che i relativi procedimenti siano stati pilotati su magistrati compiacenti, direttamente o indirettamente collegati alla Massoneria, come nel caso eclatante della strage di Piazza della Loggia, le cui indagini vennero affidate proprio al P.M. di Brescia, Massimo Vitali, risultante nelle liste degli affiliati alla Massoneria, all’epoca acquisite dal Procuratore Cordova e, oggi, tranquillamente applicato presso la Corte d’Appello di Brescia, dove secondo la mia stessa diretta e drammatica personale esperienza (in termini di anni di carcerazione a me inflitti per reati inesistenti), continuano a pullulare e far carriera magistrati di sospetta appartenenza all’area affaristico-massonica, che giudicano in maniera apertamente faziosa ogni questione che riguardi le collusioni dei propri colleghi della Lombardia e gli interessi delle massomafie.
D’altronde, nella ricca e industriosa Lombardia non è mai stata avviata alcuna indagine sulle collusioni tra magistratura, massoneria, mafia, politica, affari e servizi segreti, seppure l’ascesa della Lega Nord sia nata sulle ceneri del PSI e degli altri partiti della prima Repubblica, che gridando “Bettino fuori il bottino” e sbattendo i pugni sul tavolo del potere, promettevano di chiudere le porte alla massoneria e ai suoi progetti mondialisti, tanto da vietarne l’ingresso nel proprio Statuto, giurando di lottare contro la politica della corruzione e di voler sgominare “Roma ladrona”.
Ma, poi, le cose, come tutti sanno, sono purtroppo andate molto diversamente e, anche, la magistratura che sembrava finalmente intenzionata ad assolvere alle proprie alte funzioni istituzionali, non è mai stata attraversata, al pari della Lega e di ogni altro partito politico, da un rinnovamento etico interno, per cui rientrata nei ranghi, ha continuato a rimanere ancorata alle vecchie logiche dei poteri occulti, con un ruolo di subordinazione alla politica.
9. Il progetto della Lega Nord di costituzionalizzare la mafia, affidandole la diretta gestione politica ed economica del Sud.
Tra il 1993 e il ‘94, mentre il sistema politico implode e le stragi massomafiose prostrano l’Italia, “Cosa nostra” – che come afferma Totò Riina ha “fatto la guerra per fare la pace” -, è alla ricerca di nuovi equilibri, referenti e alleati politici, con i quali condividere e attuare l’antico sogno secessionista della mafia.
Dell’Utri assume il compito di garantire ancora una volta l’asse Milano-Palermo, mediando tra le esigenze di Cosa nostra e del nascente partito di Forza Italia, a cui poi la Lega Nord si alleerà in cambio dell’adesione al programma federalista, ispirato da interessi particolari e lobbystici degli stessi gruppi di pressione occulta, i quali attraverso la devoluzione alle regioni di alcune funzioni esercitate dallo Stato si propongono di esercitare una maggiore influenza sulle politiche locali e regionali, onde meglio gestire l’enorme gettito fiscale.
Alcuni boss dopo la fondazione di Sicilia libera si avviavano a sostenere una Lega del Sud che avrebbe dovuto nascere con appoggi massonici dalla federazione delle diverse leghe sorte nelle regioni meridionali; movimento che avrebbe dovuto formalmente contrapporsi alla Lega Nord, ma di fatto concorrere insieme ad essa alla spartizione del Paese e, soprattutto, avrebbe dovuto essere sensibile alle esigenze “politiche” di Cosa nostra.
Giovanni Brusca, in diversi interrogatori, quale collaboratore di giustizia, riferì di una confidenza ricevuta da Totò Riina: «Mi vogliono portare questo Bossi per fare la Lega del sud o la Lega della Sicilia…». Lo stesso Brusca, interrogato il 6 luglio 1999: «Confermo le dichiarazioni già rese circa lo scarso entusiasmo manifestato da Riina verso un possibile “aggancio” con la Lega Nord che gli era stato prospettato da qualcuno che non mi precisò. Ciò accadde nel 1992 fra le stragi di Capaci e via D’Amelio».
Leonardo Messina, altro collaboratore di giustizia, nel 1993 racconta ai P.M. di Palermo che con i suoi colleghi di Cosa nostra gli era capitato di parlare di Bossi, che nell’autunno del 1991 era stato a Catania: “Io lo consideravo un nemico della Sicilia”, diceva Messina. “Perché un’altra volta che viene qua non lo ammazziamo?”. Gli altri lo fermano: “Ma che sei pazzo? Bossi è giusto”. E poi gli spiegano di aver saputo da Totò Riina che non tanto Bossi, che è “un pupo”, quanto il senatore Miglio era collegato a “una parte della Democrazia cristiana e della massoneria che faceva capo all’onorevole Andreotti e a Licio Gelli”. E che era in corso un lavoro, a cui erano impegnati “Gelli, Andreotti e non meglio precisate forze imprenditoriali del Nord interessate alla separazione dell’Italia in più Stati”, con “anche l’appoggio di potenze straniere”.
Dopo la Lega del Nord sarebbe nata una Lega del Sud, “in maniera tale da non apparire espressione di Cosa nostra, ma in effetti al servizio di Cosa nostra”.
“In questo modo noi saremmo divenuti Stato”, concludono gli interlocutori mafiosi più accorti, amici del pentito Leonardo Messina. E i magistrati palermitani aggiungono: “Uno dei protagonisti dell’operazione sarebbe stato Gianfranco Miglio”… [come poi vedremo lo stesso senatore ideologo della “Lega del Nord” ammetterà esplicitamente].
Quadro che riceve infine fondamentale conferma anche dal fondatore di “Sicilia Libera”, l’imprenditore edile Tullio Cannella, vicino a Bagarella e Provenzano, riciclatore di ingenti capitali per conto dei fratelli Graviano, il quale racconta di una riunione a Lamezia Terme, alla quale avrebbero partecipato anche esponenti della Lega Nord, oltre che della Lega Italiana, Basilicata Libera e di un movimento indipendentista della Campania e altri analoghi movimenti.
Farneticazioni, secondo Bossi, a cui la DDA di Palermo trovò però altri importanti riscontri, interrogando il faccendiere Ferramonti, nell’ambito di “Sistemi criminali” (altra indagine su massoneria, politica e appalti, poi sottratta al P.M. Scarpinato e affossata). Personaggio chiave nella genesi leghista, ma anche al centro di una fitta rete di relazioni con personaggi di spicco della massoneria italiana e internazionale e con insospettabili entrature affaristico-istituzionali anche in ambienti dei servizi segreti nazionali e stranieri che porteranno al suo arresto nel 1996 dalla Procura di Aosta, nell’ambito di due inchieste sulla nuova P2. La prima relativa a una megatruffa internazionale con titoli falsi o rubati denominata “Phoney Money”; e la seconda, denominata “Operazione Lobbying“ per la sospetta collusione con i servizi segreti, onde individuare la struttura organizzativa e le ramificazioni di una lobby segreta, di cui Ferramonti avrebbe fatto parte, per suggerire nomi cui destinare incarichi governativi e per influenzare promozioni all’interno dell’amministrazione statale.
Accuse dalle quali Ferramonti verrà miracolosamente prosciolto nel 2005, dopo la puntuale scandalosa ingerenza del C.S.M., a cui hanno sempre dato fastidio le inchieste riguardanti la massoneria, che rimuoveva lo scomodo P.M. di Aosta David Monti, assegnando il caso, alla Procura di Roma, più vicina ai Palazzi e agli interessi della politica. Procedimento, ove, nella specie, risultavano coinvolti importanti politici, tra cui lo stesso attuale Ministro Maroni, che da parte sua smentiva ogni coinvolgimento nella vicenda. Fatti per cui il P.M. David Monti, ex massone e buon conoscitore dei santuari del potere, aveva interrogato personaggi di spicco della vita pubblica italiana, tra cui pericolosi lobbysti con collegamenti internazionali del calibro di Pacini Battaglia [personaggio intorno al quale non a caso si bloccarono anche le stesse indagini del pool di Milano e Palermo, chiudendo la stagione di mani pulite], nonché importanti politici, tra cui l’ex direttore del Tg1 Carlo Rossella, Lorenzo Necci ex amministratore di Ferrovie dello Stato, Ernesto Pascale amministratore della Stet, Giuseppe Tatarella e Mirko Tremaglia di An, nonché l’ex P.M. Di Pietro e lo stesso Umberto Bossi… [Cfr.: “Aosta. P.M. scippato dell’indagine sulla nuova P2 già nel 1996”, Art. cit. (5); “Attività di lobbyng per condizionare la vita politica italiana…” www.avvocatisenzafrontiere.it/?p=1375] (18).
Ma a confermare l’ipotesi di un patto suggellato tra i padani della Lega e i padrini delle «massomafie», vi è come accennato lo stesso ideologo e cofondatore della Lega Nord, Gianfranco Miglio, il quale nell’intervista del 20.3.99 a “Il Giornale”, afferma senza mezzi termini: «Sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta», spingendosi a sostenere in altra farneticante dichiarazione al settimanale “l’Espresso”, dopo la strage di Via d’Amelio, contro il giudice Borsellino, la necessità del «ritiro dello Stato dalla Sicilia», ipotizzando di elevare a governo locale, la «mafia vincente», affidandole il diretto controllo politico-amministrativo dell’isola.
E’ quindi il senatore Miglio a confermare con tali clamorose interviste, almeno in parte, le “farneticazioni” di Leonardo Messina, ammettendo di essere stato in contatto con Giulio Andreotti, proprio nel 1992, per svolgere una trattativa segreta che negoziasse l’appoggio della Lega Nord alla sua candidatura alla presidenza della Repubblica, in cambio di una politica favorevole al progetto federalista e a una nomina di senatore a vita per Miglio.
“Con Andreotti ci trovammo a trattare di nascosto a Villa Madama sulle pendici di Monte Mario davanti a un camino spento”, confessa Miglio, aggiungendo: “Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”.
Ecco il vero progetto del teorico della Lega Nord: costituzionalizzare la mafia siciliana, anche sul piano formale e giuridico, affidandole oltre al controllo del territorio, già in suo possesso, anche la diretta gestione politica ed economica del Sud.
Insomma, la mafia imprenditrice al potere.
10. IL VERO PROBLEMA DELLA LEGA NORD E DEL SISTEMA DEI PARTITI: CONTINUARE A CELARE L’ESISTENZA DEL «DOPPIO STATO».
Il problema di fondo della Lega e degli apparati dei partiti non è dunque che esistano le «massomafie». Quello va bene, ci sono, l’importante è che non si sappia. Questa è la vera ed unica preoccupazione del Ministro Maroni e di quei «poteri esterni» che, nell’ombra, certi della reciproca impunità, conferita dall’adesione al «sodalizio massomafioso», controllano Parlamento, istituzioni economiche e giudiziarie.
E’ forse per questa intuizione investigativa che Falcone e Borsellino sono stati traditi dallo Stato, lasciati soli, anche dai molti colleghi, e trucidati, ponendo fine al grande sogno di una giustizia, senza padrini e padroni politici.
Lo stesso Riina, uscendo allo scoperto, ha dichiarato: «Borsellino l’ammazzarono loro».
E’ per questa ragione che le inchieste che riguardano le massomafie, da «Mani segrete», «Operazione Lobbyng», «Sistemi criminali», sino a «Why not», vengono abitualmente affossate, lasciate cadere in prescrizione o cacciati i magistrati onesti. E’ per questa ragione che chiunque osi denunciare il malaffare viene perseguitato e messo a tacere, sin dai tempi del primo pentito di mafia, Leonardo Vitale, dapprima delegittimato, rinchiuso in un manicomio psichiatrico, eppoi trucidato. [«Leonardo Vitale. Stato e mafia: una “Cosa sola” www.avvocatisenzafrontiere.it/?p=1817 (19) ].
E’ per questa ragione che Buscetta, il quale pur collaborando a tutto campo fu irremovibile, quando nel 1984, rientrando dalla latitanza in Brasile, interrogato da Giovanni Falcone sui legami tra Stato, mafia, affari, massoneria affermò esplicitamente di non poterne parlare: «perchè lo Stato non è preparato ad affrontare un tema così grave che ancor oggi coinvolge persone e istituzioni insospettabili». Solo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Buscetta decise di rivelare i retroscena dei più gravi delitti di mafia e di fare i nomi dei politici, dei massoni e degli uomini dello Stato nemici di Falcone e di Borsellino. Ma, ciò, come previsto, non servì ad assicurare alla giustizia i mandanti occulti delle stragi. «Oggi capisco che aveva ragione Buscetta» è stato amaramente costretto ammettere, l’ex magistrato e membro della Commissione Parlamentare Antimafia, Ferdinando Imposimato, il quale a proposito delle rivelazioni di Buscetta ha aggiunto, senza riuscire a celare il proprio disappunto: «Nessuna delle verità che egli rivelò nel corso dei processi di Palermo e di Perugia fu confermata da sentenze di condanna. Le sue testimonianze precise e circostanziate sui legami mafia-politica-massoneria furono disintegrate. Nonostante – chiosa significativamente – le decine di conferme di altri mafiosi, che pure erano stati ritenuti attendibili per tutte le altre accuse contro i loro complici per omicidi e stragi». [Cfr: “La verità sull’Addaura – Doppi servizi“, di Ferdinando Imposimato, www.lavocedellevoci.it – (20)].
Ed è ancora per questi stessi perversi e inconfessabili motivi che la magistratura italiana, fin quando non riuscirà ad affermare la propria effettiva autonomia da ogni potere esterno, non sarà mai in grado di far piena luce sulle stragi di Stato e il connubio tra mafia-politica-affari-massoneria-servizi segreti, che coinvolge suo malgrado i propri stessi più alti vertici, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte Costituzionale, nonché la Commissione Parlamentare Antimafia, bicamerale, in rappresentanza del sistema dei partiti.
La struttura di potere del «Doppio Stato», la quale non va dimenticato è al contempo struttura di controllo del territorio e di condizionamento capillare delle istituzioni, è infatti articolata in maniera da intralciare con ogni mezzo qualsiasi indagine scomoda, utilizzando le routinarie operazioni antimafia, come strumenti di mera propaganda politico-elettorale e di «eliminazione legale» delle famiglie perdenti: solo per citare alcuni esempi, vedasi gli arresti ad orologeria di Coco Trovato, Riina, Provenzano, Jovine… che, storicamente, scandiscono l’inabissamento delle mafie e l’emergere di nuovi equilibri sul territorio.
Alla magistratura è consentito – soltanto da morti – di eleggere a propri eroi nazionali, quei magistrati scomodi, usciti dal branco, che sono andati «troppo in là» o, che «amavano troppo la loro terra» e la giustizia, come, pare, avrebbe affermato l’ex Presidente Cossiga, in una intercettazione telefonica, dopo la strage di Capaci, venendo dapprima delegittimati, lasciati soli e condannati al martirio, che da lustro alla Corporazione e «gloria al Paese».
La «contraddizione di sistema», su cui si poggia l’evanescente Stato di diritto italiano, che travolge il formalismo giuridico, dai quali dovrebbe sgorgare la legalità, può venire in tal modo assorbita dall’alterna e ipocrita apparizione del “volto umano” delle istituzioni democratiche, sempre pronte a stringersi tardivamente intorno alle loro vittime sacrificali, ogni qualvolta lasciano vilmente spargere il sangue innocente dei fedeli servitori dello Stato, da immolare sull’altare della doppiezza e dei “superiori interessi” dell’economia massomafiosa, di cui l’arcaico e brutale sistema sociale che sorregge la nostra civiltà pare non possa più fare a meno.
Attraverso questi macabri rituali e solenni celebrazioni delle sue vittime sacrificali, lo Stato dal volto doppio e dall’oscura personalità, Giano bifronte rovesciato degli dei della politica, riesce addirittura a rigenerarsi, come i vampiri, succhiandone la linfa vitale, grazie alla sua continua metamorfosi, addossando ogni responsabilità alle mafie di turno, contro cui tutte le forze politiche e i rappresentanti dei governi del momento sono, all’occorrenza, sempre pronti a rinnovare (a parole) il loro impegno nella lotta a fianco della magistratura e della società civile che, dopo ogni strage, secondo un copione ormai logoro, viene mobilitata sapientemente dai soliti professionisti dell’Antimafia, prima che la stessa si organizzi da sé. In modo che nulla possa davvero cambiare. Anzi, se non vi fossero magistrati coraggiosi controcorrente e associazioni antimafia è certo che la piovra statuale dovrebbe inventarli, perché solo grazie a loro e all’apparente contraddizione può mantenere in vita la credibilità delle istituzioni e la sua stessa esistenza.
«Finzione a ripetere» che, ormai, la gente pensante e le vittime delle massomafie hanno imparato a riconoscere, rifiutando i funerali di Stato, a partire da Eleonora Chiavarelli, vedova dello statista Aldo Moro, lasciato trucidare dallo Stato occulto, sino alla moglie del giudice Borsellino, Agnese Borsellino, che optò per le esequie private, disgustata dallo Stato … “che non seppe o non volle proteggere il marito e i cinque agenti della scorta”. [http://videoclip.dossier.net/video/agnese-borsellino-rifiuta-i-funerali-di-stato – (13)].
Il «Doppio Stato» riesce così a mantenere intatto il controllo della massa dei governati, facendoci credere, da oltre 40 anni, che, nonostante tutto, le istituzioni sono sane, forti, compatte contro le mafie e, salvo qualche “mela marcia”, dalla parte dei cittadini, i quali devono rispettare le leggi e le sentenze, continuando a dar fiducia al sistema dei partiti. Non è vero che vi è un organismo statuale sdoppiato, con politici, magistrati, funzionari di forze dell’ordine e servizi segreti che vivono in simbiosi con mafia e massoneria, e un’altra parte largamente minoritaria che lo contrasta a rischio della propria vita. Quella è solo una teoria, anzi un teorema, di sociologi, politologi, giustizialisti e toghe rosse, di cui nessuno parla e che la gente neppure quasi conosce.
E’ attraverso questa «coazione a ripetere» e vera e propria manipolazione di massa, basata sulla sistematica strumentalizzazione dei magistrati Antimafia e sui raffinati mezzi di condizionamento delle Procure e depistaggio delle indagini, ovvero sulla disinformazione in materia, dovuta anche alla complessità e mole dei fatti storico-giuridici da analizzare, che i poteri occulti perpetuano e riproducono, da oltre 40 anni, i meccanismi di sistema dell’aberrante monopolio delle «massomafie», che si sono impadronite dello Stato.
A questo punto, è possibile rispondere anche alla seconda domanda del perché nessuno parli delle massomafie, sebbene esistano almeno dagli anni ’70 e perché la maggior parte degli addetti ai lavori eviti accuratamente di pronunciare il termine massomafia e mettere in luce il ruolo centrale svolto dalla massoneria e dalla magistratura di regime, alle cui decisioni viene sempre attribuita insindacabilità di giudizio, anche quando appaiono essere palesemente illegittime e contrarie al buon senso comune, provenendo spesso, senza che la cosa sia resa nota, da magistrati la cui lealtà alle leggi dello Stato è compromessa dalla appartenenza a logge massoniche o centri di potere occulto.
11. STATO, MAFIA, MASSONERIA SONO UNA “COSA SOLA”. FALCONE DIXIT: «UN’ALLEANZA CAPACE DI CONTAMINARE QUALSIASI REALTA’».
Furono proprio la vastità dei legami tra mafia e imprenditoria nazionale e il convincimento dell’esistenza di una «cabina di regia», in grado di dettare legge da «Milano a Palermo» – e, non viceversa – a suscitare l’attenzione dei due più grandi magistrati italiani, trucidati dalle «massomafie» che, come scrive Alfio Caruso, in “Milano Ordina Uccidete Borsellino”, indagavano a tutto campo, “senza alcuna ritrosia né sudditanza psicologica e timore del livello al quale potessero giungere le loro indagini”.
Indagini avviate proprio a partire dalla spartizione degli appalti che coinvolgevano tutti i partiti, comprese le Cooperative rosse, An e l’ex Pci, che sedevano indistintamente allo stesso «tavulino» coi mafiosi e le principali imprese del Paese, sino ai legami, allora ancora sconosciuti, tra Francesco Pacini Battaglia, denominato “il banchiere un gradino sotto dio” (oscuro protagonista di mani pulite, accusato di riciclaggio, corruzione di finanzieri e magistrati, traffico d’armi, poi condannato a oltre sei anni, solo per i 120 miliardi di fondi neri Eni), e Filippo Salamone, ora in carcere, denominato “l’acchiappatutto degli affari isolani”, fratello del più noto P.M., Fabio Salamone, all’epoca Sostituto presso la Procura di Agrigento, eppoi grande accusatore dal pulpito della Procura di Brescia dell’ex P.M. Antonio Di Pietro, protagonista degli interrogatori del banchiere italo-svizzero Pacini Battaglia, il quale confessò di aver gestito con la sua banca svizzera Karfinco, 500 miliardi di fondi neri Eni (senza fare nel ‘93 un solo giorno di carcere, sino alla condanna definitiva, confermata dalla Cassazione nell’ottobre 2005). [“Milano Ordina Uccidete Borsellino”, Alfio Caruso, 2010, Longanesi – (22) ].
A riguardo, è utile ricordare che i due magistrati avevano da tempo compreso che la testa della piovra non era in Sicilia e che il nodo da sciogliere andava ricercato nel più ampio contesto del rapporto “mafia-politica-affari-massoneria-servizi deviati”, come desumibile dalle piste che stavano seguendo che portavano a Milano, dove avevano sede tutte le varie società a copertura di questo collegamento operativo tra organizzazioni criminali e colletti bianchi, con sbocco su conti correnti svizzeri. Per questo motivo, appena la polizia elvetica consegnò ai Magistrati i fascicoli comprovanti questo “patto criminale”, Falcone si incontrò segretamente con Di Pietro, prima che si togliesse inspiegabilmente la toga, chiudendo la posizione di Pacini Battaglia, in quanto la Procura di Milano era competente a perseguire i responsabili, benché prestanomi, di queste società massomafiose.
Storie parallele e oscure, su cui nessuna Procura è ancora riuscita a fare luce, quelle che legano il banchiere italo-svizzero Pacini Battaglia ai fratelli Salamone [“i due più potenti fratelli della città”, come li denominava il giornalista agrigentino Lorenzo Rosso], che si intersecano con la tragica fine di Borsellino e del successivo fallimento di “mani pulite”, in cui chi indagava sulle massomafie è stato messo sotto accusa dagli indagati e dai poteri forti che controllano la magistratura.
Il primo, un mafioso, attualmente in carcere, con sentenza definitiva della Corte di Cassazione per concorso in associazione mafiosa nel processo «mafia-appalti». Procedimento istruito Procura di Palermo che nacque dalle dichiarazioni del pentito Angelo Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra”, che svelò il patto tra mafia, partiti e grandi imprese nazionali, in base al quale, oltre a Filippo Salamone, titolare di “Impresem”, in rappresentanza di imprenditori e politici, furono anche condannati Giovanni Bini, quale rappresentante di “Cosa nostra” e Lorenzo Panzavolta, in rappresentanza del gruppo Ferruzzi, associati per spartirsi l’enorme torta degli appalti siciliani consistente in ben 5 mila miliardi di finanziamento pubblico ogni anno rovesciati sull’isola. Un comitato d’affari che applicava le regole imposte dal capomafia Totò Riina nella distribuzione di lavori miliardari.
Le dichiarazioni di Siino furono confermate anche da Giovanni Brusca che ammise che Totò Riina decise che l’imprenditore agrigentino, fratello del magistrato, attualmente Procuratore aggiunto a Brescia, sarebbe stato l’unico manipolatore dei grandi appalti, compresi quelli superiori all’importo di cinque miliardi di vecchie lire. In cambio del riconoscimento offertogli da Cosa nostra, Salamone, l’ingegnere, avrebbe dovuto garantire il versamento di una quota di grandi appalti a società segnalate dalla mafia, in primo luogo a quelle del gruppo Ferruzzi. Riina avrebbe infine imposto al titolare della Impresem di versare nelle casse della mafia il 3% dell’importo degli appalti assegnati alle imprese amiche; mentre per sé il capo di Cosa nostra avrebbe trattenuto lo 0,80%.
Il secondo, un Pubblico Ministero, che dopo l’uccisione di Borsellino, dal quale era stato invitato a lasciare Agrigento (ove operava il fratello mafioso), chiederà di trasferirsi a Brescia [la Procura del nord più amata dai mafiosi al confino…], diventando il grande accusatore dell’ex P.M. Di Pietro, che all’epoca indagava sul banchiere italo-svizzero Pacini Battaglia, i cui rapporti con il fratello Filippo Salamone, tanto avevano suscitato l’attenzione di Borsellino, prima di venire trucidato, come ci rivela Alfio Caruso nella citata opera “Milano Ordina Uccidete Borsellino”. [Op. cit. (22) ].
Forse solo una serie di singolari coincidenze. Chissà…?
Certo è che i ripetuti inquietanti e macroscopici conflitti di interesse del P.M. Salamone avrebbero dovuto indurre il C.S.M. da una parte a non attendere che Borsellino venisse ucciso prima di disporne il trasferimento (che lo stesso Borsellino sollecitò in occasione di un incontro riservato con il collega Salamone pochi giorni prima di morire), eppoi dall’altra, a scegliere una procura diversa da quella di Brescia, che non avesse competenze investigative sulle indagini a carico del fratello ingegnere, zar degli appalti, quantomeno indirette, tenuto conto che la sede di Brescia ha potere di indagine sui magistrati di Milano, i quali a loro volta stavano indagando sulla “Duomo connection”.
E’, altresì, cosa certa che il consiglio di “andar via dalla Sicilia” che il Salamone, Pubblico Ministero, ammette di avere ricevuto da Paolo Borsellino, il 29 giugno 92, riguardante l’eccessiva esposizione del magistrato nella città natia, dove operava il fratello ingegnere – con il quale veniva definito come “i due fratelli più potenti della citta” – viene raccolto solo dopo la sua morte e si traduce nell’astuzia di allontanarsi dall’isola ma, nel contempo, avvicinarsi ad un livello più alto alle indagini che riguardavano gli interessi associativi del fratello mafioso, denominato lo “zar degli appalti”, con possibilità non solo di diretta conoscenza e controllo, ma anche di condizionamento, sottoponendo ad indagini quegli stessi magistrati del pool di Milano che lavoravano sul filone corruzione politica e imprenditoriale. Secondo alcuni giovani magistrati agrigentini, tra cui il sostituto procuratore Stefano D’Ambruoso, il P.M. Salamone sarebbe stato un “insabbiatore” e tali accuse sarebbero state avvallate da due pentiti della “Stidda” di Palma di Montechiaro, Giuseppe Croce Benvenuto e Giovanni Calafato.
D’altronde, lo stesso Procuratore Micciché, ebbe ad osservare che le inchieste nei confronti della Pubblica Amministrazione iniziarono solo dopo la morte di Paolo Borsellino, perché ad Agrigento, fino al ’92, «si erano fatte solo 20 indagini, che diventarono ben 500 nel solo 1993». Qualcosa vorrà pur dire. O no?
Analoghe complicità vanno ascritte alla Procura di Brescia, guidata dal ‘91 al ‘95 dal piduista Francesco Lisciotto, vicino alla Brescia che conta, che al pari del C.S.M., ignorò il conflitto di interessi del Salamone pubblico ministero, omettendo di avocare le indagini su Di Pietro ad altro P.M. o al Procuratore Generale, come previsto dall’art. 53 c.p.p., seppure dalle intercettazioni telefoniche del banchiere italo-svizzero Pierfrancesco Pacini Battaglia [le stesse spedite dai magistrati di La Spezia a Brescia che diedero origine all’ultima inchiesta bresciana su Di Pietro], lo stesso Pacini, parlando con l’avv. Petrelli, ammettesse: “Come sono difeso dal pool a Milano, così sono difeso da Salamone a Brescia. Anche perché qualcosina so di loro, del pool e di Salamone uguale“…
In un altro colloquio telefonico, Pacini avrebbe financo parlato di soldi versati o promessi a Filippo Salamone, fratello del P.M., che entrava così da protagonista (nonostante l’incompatibilità), nelle più oscure e controverse inchieste di mafia, affari, politica e massoneria, da cui Paolo Borsellino, prima di venire ucciso, gli aveva espressamente chiesto di allontanarsi, lasciando la Sicilia.
Borsellino aveva infatti concentrato la sua azione, seguendo le orme di Falcone, sui flussi di miliardi di lire, che giungevano a Milano, derivanti dal colossale traffico di cocaina, gestito dai cartelli colombiani e dalle principali dinastie palermitane dei due continenti. Quattrini spediti nei camion di frutta e verdura, ufficialmente diretti all’Ortomercato e da qui sparsi in tutto il mondo con la complicità di banche e istituti di credito.
Borsellino aveva intuito che la finanziaria dell’anonimo ragioniere milanese, Pino Lottusi, a due passi dalla madonnina, nascondesse una centrale del riciclaggio planetario, dietro la quale si stagliavano i cospicui interessi di multinazionali, aziende farmaceutiche, uomini politici e finanzieri di fama internazionale. In particolare Borsellino era convinto, muovendosi in questo campo, di arrivare ai mandanti dell’assassinio di Falcone. Al riguardo, affermò in più di una occasione di avere individuato i fili della strage di Capaci.
“Ho capito tutto” ripete spesso alla moglie, prima di venire a sua volta ucciso, senza che nessuno poi cercherà di approfondire l’esistenza e i legami di quella “cabina di regia” che lo condannò vigliaccamente a morte e che probabilmente è quella stessa cupola di cui fanno parte le principali imprese del paese, ivi comprese le Cooperative rosse e gli apparati dei partiti di governo e di opposizione che fingono da oltre 50 anni di contrastare le mafie.
Tuttavia è un fatto che nei principali episodi stragisti dell’Italia di questi ultimi decenni (solo per far qualche esempio: Italicus, Ustica, Moby Prince, Piazza Fontana; Strage di Bologna; strage di Via D’Amelio e strage di Capaci) i servizi segreti deviati erano sempre coinvolti in vario modo; e i testimoni sono sempre morti nello stesso identico modo: con una tecnica che oltre ad essere sempre uguale, è indizio dell’intervento di persone che adottano tecniche sofisticate (ecco il significato dell’espressione “menti raffinatissime” usata da Falcone riguardo al suo attentato all’Addaura). Ciò indica che probabilmente c’è un filo conduttore tra tutte queste stragi. E questo filo conduttore probabilmente lo si troverebbe nello logge massoniche deviate.
12. IL «CLUB» DOVE STANNO DENTRO MAFIOSI, INDUSTRIALI, MASSONI, CAVALIERI DI MALTA, POLITICI E UOMINI DEI SERVIZI SEGRETI.
Il boss Francesco Madonia, membro della cd. “commissione interprovinciale”, molto vicino a Riina e Provenzano, chiamava quella perversa cd. “cabina di regia”: «il Club», dove stavano dentro mafiosi, industriali, massoni, cavalieri di Malta, etc., gestendo gli appalti su tutto il territorio nazionale, come abbiamo anche avuto oggi conferma attraverso uno dei biglietti depositati da Massimo Ciancimino, che ha riferito agli inquirenti che suo padre, Don Vito, avrebbe voluto discutere con Di Pietro degli appalti milanesi e dell’oscuro mondo che si muoveva dietro, ma i Carabinieri, a suo dire glielo vietarono.
E’ certo che, a quel punto, agli occhi di Paolo Borsellino era ormai chiaro lo schema del Gioco Grande individuato da Falcone: inserimento del capitale mafioso in aziende pubbliche e private; partecipazione al traffico internazionale di droga e di armi, gestito da appartenenti al Sismi e al Sisde con la copertura di politici e di apparati dello Stato; riciclaggio dei guadagni attraverso le società off-shore di alcune multinazionali compiacenti. Lo stesso sistema già scoperchiato dal giudice Carlo Palermo, durante il governo Craxi, a metà degli anni ’80, scampato miracolosamente a un attentato, eppoi messo a tacere.
Ma quel «Club» criminale, dai risvolti internazionali, attraverso l’asse Cia-mafia-industria-Vaticano-partiti-massoneria e ampi settori deviati dello Stato, che regge l’Italia, sin dal dopo guerra, non darà scampo a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e alle loro scorte, che volevano restituire il Paese alla legalità, venendo fermati prima, proprio mentre si accingevano ad indagare nella direzione del cosiddetto «quarto livello», scoperchiando le «massomafie».
13. L’ASSOGGETTAMENTO DI PROCURE E C.S.M. ALLE«MASSOMAFIE». PACINI BATTAGLIA E LA VICENDA DELL’AUTOPARCO DELLA MAFIA.
Singolari e non meno allarmanti le sorti dei tanti processi contro Pacini Battaglia e i suoi accoliti (piduisti, boss mafiosi, uomini dei servizi, finanzieri e magistrati corrotti), disseminati tra le procure di La Spezia, Firenze, Milano, Roma, Perugia, in buona parte affossati o lasciati laconicamente prescrivere. Tutti partiti dalle indagini sull’«Autoparco della mafia» di Via Salomone a Milano, dove la ‘ndrangheta gestiva indisturbatamente da anni un vasto traffico di armi e droga, grazie alle accertate complicità di poliziotti corrotti iscritti alle logge – [e, secondo i pentiti, anche di magistrati di Milano], che coinvolsero il banchiere Pacini Battaglia il quale si ipotizzò creò la «Karfinco» su mandato dei servizi segreti, come base logistica di Tangentopoli, la cui pista di denaro e fondi neri non sarebbe servita solo a finanziare il sistema dei partiti, ma anche ad alimentare la cosiddetta “strategia della tensione”, assoldando esperti e collaboratori esterni ai servizi segreti. [“Tangenti e misteri di Stato. I servizi molto segreti dei padrini di Tangentopoli”, in Avvenimenti, 7 luglio 1993 – (23) ].
A due passi dall’Ortomercato, ove ogni giorno centinaia di Tir scaricano dalla Sicilia e dal Sud, quintali di agrumi, frutta e verdure, l’Autoparco della mafia, si prestava, invece, come la migliore base logistica per tutte le famiglie vincenti, adatta a fare transitare l’eroina delle raffinerie siciliane e la droga turca smistata e lavorata in Lombardia, nonché i proventi del narcotraffico. “E’ su un camion Renault destinato all’Ortomercato – racconta il pentito Joe Cuffaro – che i Madonia di Resuttana mandarono a Milano i soldi destinati al cartello di Medellin, in pagamento della cocaina e che Giuseppe Lottusi riciclò in Svizzera“. [Sul riciclaggio: “Swiss Connection”, G. Trepp, Unionsverlag, 1996 (24)].
Nella ricostruzione del pentito Salvatore Annacondia, l’Autoparco di Via Salamone era gestito come un aeroporto utilizzato da più compagnie aeree, dove i boss, insieme, facevano uso comune delle sue strutture, oltre ai calabresi e ai catanesi, vi erano i pugliesi della Sacra corona unita e i napoletani della camorra: “Possono farlo perché sono tutti affiliati a quella grande alleanza della mafia che si riconosce negli interessi di Cosa nostra”. Una Dinasty del crimine, tra cui a capo delle ‘ndrine troviamo Franco Coco Trovato, il boss trapiantato a Lecco, che appoggiava l’ascesa della Lega Nord, il quale, ritirata la partita, faceva uccidere i corrieri turchi, in modo da non pagare i debiti, per infine eliminare i cadaveri, riducendoli a scatolette, nella pressa di un autodemolitore.
Gli investigatori riescono a risalire ad alcuni episodi. Sette morti in tutto. Vengono trovati i cadaveri incaprettati di due turchi, Aydin Aydemir, 29 anni e Alì Altintas, 21. Sono chiusi nel bagagliaio di una Peugeot parcheggiata in piazza Caserta, vicino a viale Zara. Negli stessi giorni vengono uccisi Ercole Viganò, Angelo Petrosino e Francesco Ventrici, entrati in contatto con i turchi. Il 31 marzo ’92 vengono uccisi il chimico turco Fahrettin Demirtas e il trafficante Francesco Calaresu. Avevano venduto eroina a chili a uno dei boss dell’Autoparco e stavano ancora aspettando i soldi. Qualche giorno prima un’ amica li aveva avvertiti: “Non fidatevi di quelli: loro prendono la roba e non vi pagano. Vi uccidono”.
L’indagine, dapprima condotta dalla Procura antimafia di Firenze, di concerto con Falcone e Borsellino, il quale poche ore prima di morire telefonò a Firenze, dicendo al Procuratore Vigna “ora la palla passa a voi”, venne, poi, invece, assegnata alla Procura di Milano, che nonostante la precedente inerzia e sospette collusioni, vinse il lungo braccio di ferro tra il procuratore Borrelli e il dr. Vigna. Poche ore dopo Paolo Borsellino saltò in aria. Ci volle probabilmente la sua morte per fare scattare il 17 ottobre ’92, il primo blitz del Gico, il gruppo investigativo sulla criminalità organizzata della Guardia di finanza, coordinato dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze.
I finanzieri seguivano i “picciotti” di Giacomo Riina, l’ottantenne zio di Totò “u curtu”, il capo dei capi, allora libero, e al vertice di Cosa Nostra. Gico e Antimafia di Firenze, con l’intervento determinante del Sisde che fornì microfoni e telecamere ad alta definizione per le riprese, individuarono nei capannoni di via Salomone la base operativa di un importante consorzio delle cosche al Nord. L’operazione portò all’arresto di Giovanni Salesi e di 16 complici, al sequestro di un vero e proprio arsenale e di 140 chili di hashish e 5 di eroina. All’interno vi erano i corleonesi, i catanesi di Nitto Santapaola, i cursoti di Gimmi Miano, e altri clan, tra cui i gelesi trapiantati a Milano. L’autoparco era già stato al centro di indagini della procura di Milano con il giudice Di Maggio e i carabinieri già ben otto anni prima, nel 1984, ma l’inchiesta si era arenata, senza risultati. La procura fiorentina, invece, dopo il primo blitz, non si ferma. Nella rete finisce prima un ambiguo personaggio a metà tra politica e massoneria, Angelo Fiaccabrino, imprenditore originario di Licata (Agrigento), eppoi Angelo D’Isanto, un ingegnere di 32 anni, nato a Udine, ma con abitazioni a Milano e Torino, pure arrestato con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Secondo gli inquirenti fiorentini, D’Isanto era in stretto contatto con Fiaccabrino, accusato di essere il tramite tra le cosche di via Salomone e gli ambienti politici, amministrativi e massonici di Milano. Fiaccabrino, avrebbe avuto, secondo gli inquirenti fiorentini, anche il compito di fare una serie di operazioni immobiliari per riciclare il denaro della mafia. Intanto anche i giudici di Milano iniziano a muoversi. Acquisiscono informative sulle attività illecite di via Salomone, dai pentiti Salvatore Annacondia e Salvatore Morabito che parlano coi sostituti Spataro e Nobili, mentre dalla Toscana partono, però, gli avvisi di garanzia per alcuni poliziotti corrotti del Commissariato di Via Poma a Milano, anch’essi iscritti alle logge, che vengono arrestati perché accusati di aver favorito i mafiosi.
Ma la scomoda operazione dei GICO di Firenze, che porta alla luce un traffico di armi e droga con un giro d’affari giornaliero oscillante tra i 700 e i 1.200 milioni di lire e collusioni con gli ambienti massonici lombardi, entrò subito in conflitto di competenza con Milano. Iniziarono le avvisaglie (bomba nei pressi degli Uffizi e altra bomba a settembre). L’inchiesta passò quindi definitivamente alla Procura di Milano, frantumandosi in vari procedimenti. Le condanne di primo grado vennero o annullate o smorzate, si passò da associazione mafiosa a semplice corruzione. Ed iniziò la seconda repubblica. Forse, ben peggiore della prima.
Anche “mani pulite 2”, a carico del banchiere italo-svizzero, magistrati e politici da lui corrotti, dopo 11 anni di inchieste cade nel nulla, finendo malinconicamente con il solito interminabile elenco di prescrizioni. Da La Spezia a Perugia, cade l’associazione a delinquere, sparisce la corruzione in atti giudiziari, escono di scena i protagonisti che allora riempivano le cronache dei giornali: il banchiere Pacini Battaglia, i magistrati che hanno intascato le mazzette, i manager delle Ferrovie dello Stato, con i quali secondo i magistrati si metteva in moto il sistema Necci-Pacini, in occasione di ogni appalto ferroviario, immettendo le tangenti raccolte in un complicato giro di conti bancari riconducibile a società offshore, soldi infine utilizzati per pagare i magistrati romani del cosiddetto “presidio giudiziario” che insabbiavano le inchieste su di loro o pubblici ufficiali, come il maresciallo D’Agostino e il capitano della Guardia di Finanza Floriani.
Si andrà avanti solo per 11 dei 41 imputati e solo per il reato più grave, capace di resistere alle sollecitazioni del tempo: il riciclaggio. Per il resto, il Tribunale di Perugia mette i titoli di coda ad una storia che aveva agitato l’Italia nel 1996: le 168 ore di intercettazioni del Gico di Firenze sui telefoni di Pacini; le manette al numero uno delle Ferrovie Lorenzo Necci, munificamente finanziato da Pacini con 20 milioni al mese. Flash di un passato ormai remoto. Aspettative consumate nella diaspora dei fascicoli: una parte a Brescia per illuminare i rapporti fra Pacini, Di Pietro e un gruppo di palazzinari amici e per chiarire una volta per tutte l’amletico quesito: «sbancato» o «sbiancato»?; una tranche a Milano per le mazzette sullo scalo di Fiorenza; il resto quasi subito, dall’ottobre ’96, a Perugia, la roccaforte massonica per giudicare i magistrati romani coinvolti negli episodi di malaffare.
Lo stesso Di Pietro uscito indenne dai processi bresciani di Salamone, ridimensiona il ruolo di Pacini, che nel 1996 finisce in cella, ma ottiene subito dopo l’affidamento ai servizi sociali per lavorare come bibliotecario a Bientina (Pisa), nel suo paese di origine.
Lorenzo Necci se ne va travolto da una Range Rover, in sella alla sua bicicletta, mentre si stava recando a giocare a golf col suo avvocato, ma non prima di aver raccolto un’impressionante raffica di assoluzioni: 42 assoluzioni su 42 processi!
Incredibilmente, solo l’udienza preliminare del fascicolo perugino è durata cinque anni, dal 2000 al 2005. E ci sono volute 48 udienze per portarla a termine e per certificare il non luogo a procedere per 49 degli indagati e il rinvio a giudizio per i restanti 41. Uno sproposito. Attualmente, anche se può apparire surreale, siamo ancora agli inizi del dibattimento di primo grado: il Pm Alessandro Cannevale ha chiesto al tribunale di dichiarare la prescrizione per gran parte delle accuse. Raccolte in 420mila pagine di atti. Ormai, materia per l’archeologia giudiziaria.
E i giudici hanno accolto il suo ragionamento; cadono le accuse nei confronti dell’ex capo dei gip di Roma Renato Squillante, al centro dei processi milanesi, e si perdono per strada quelle riguardanti Orazio Savia, Giorgio Castellucci e Roberto Napolitano. Stesso provvedimento, fra gli altri, per l’ex patron della Lazio Sergio Cragnotti e poi per l’amico piduista Emo Danesi (tessera 1916), ex Dc, con cui fu arrestato nel ´96. Idem per Rocco Trane, Ercole Incalza, Silvano Larini, Marcello Petrelli. Tempo scaduto sia per l’associazione a delinquere (aprile 2005) sia per la corruzione in atti giudiziari e il falso (dcembre 2005). Si va avanti solo per Pacini, ma il capo d’imputazione che lo riguarda è notevolmente ridimensionato. Resiste solo il riciclaggio. E il riciclaggio viene contestato anche ai figli di Necci, Giulio e Alessandra, e alla vedova Paola Marconi.
Singolarmente, il collegio del tribunale di Perugia che proscioglierà nel 1992 il banchiere “a un passo da Dio”, dall’accusa di corruzione di magistrati romani, è Nannarone Paolo, già negli elenchi della Loggia Propaganda 2, insieme a quelli di altri magistrati, che a differenza dei colleghi, verrà a sua volta assolto dal Csm e benché lo si ritrovi nuovamente negli elenchi di Cordova del ‘92, continuerà la sua carriera senza problemi, fino a presiedere al tribunale di Perugia difeso dagli stessi legali di Andreotti sono gli avvocati Coppi e la parlamentare di An Giulia Bongiorno. Loro, si sa, sono sempre innocenti.
14. LA SORTE DI CHI OSA RIBELLARSI ALLE MASSOMAFIE E’ PUNITA PRIMA CON IL DISCREDITO, EPPOI CON LA MORTE CIVILE. E SE NON BASTASSE CON FALSI SUICIDI O STRAGI SPETTACOLARI.
Questo Saviano lo sa bene. Vive da anni con la scorta. Sa che non deve guardarsi solo dalla Camorra o da Sandokan, ma anche dai poteri forti, Stato e Massoneria, o almeno parte di essi, che fingono di proteggerlo, fino a quando non alza il tiro. Sa bene che in Tv, come su Repubblica, finora era vietato parlare di massomafie. Deve stare al gioco. O, fingere, come gli stessi poteri forti, che sperano di usarlo, cercando di rifare il lifting al volto di un potere arcaico logoro e corrotto.
Per questo gli è più facile puntare il dito, ora contro la camorra, ora contro le ‘nandrine, indicate la prima colpevole del disastro dei rifiuti urbani in Campania e la seconda dell’infiltrazione nel tessuto sano dell’economia lombarda.
In entrambi i casi afferma una cosa non vera. Nel processo in corso contro Bassolino e vertici di Impregilo & Fibe non vi sono imputati per reati “di camorra“, ma per truffa e falso. Qui le responsabilità non sono della camorra, ma della politica e se si assolvono gli amministratori e i politici che hanno combinato questo disastro si fa un favore lla camorra perchè la camorra si combatte asciugando l’acqua in cui nuota! Ed è bene sapere che le difficoltà a gestire nel modo giusto i rifiuti (raccolta domiciliare, centri di compostaggio e di riciclo) non vengono tanto dalla camorra quanto piuttosto da un intreccio perverso tra grandi interessi e politica, senza distinzione di parte, ne sappiamo ben qualcosa anche noi cittadini di una regione “rossa” quale l’Emilia Romagna, oncologa Patrizia Gentilini
Il destino dei pensatori solitari come me o Saviano – i “matti” che mandano avanti il carro del progresso della civiltà, come scriveva Ernesto Rossi – d’altra parte, sarebbe quello di scegliere tra tacere subendo l’assimilazione al pensiero dominante o, adoperarsi per affermare la verità e la giustizia, subendo l’esclusione dalla società e la morte civile.
In tale contesto, è quindi chiaro perché le parole di Saviano, capaci di trasformarsi in strumenti di lotta critica contro il bispensiero d’alemian-berlusconiano dominante, destino tanta inquietudine e risultino molto più pericolose di qualsiasi altra forma di ribellione organizzata o violenta.
Le ragioni sono evidenti a tutti ma più complesse di quanto possano apparire. Saviano, parlando di ecomafie, rapporti tra Lega, politica e ‘ndrangheta, lambisce un argomento tabù, quello delle massomafie e della massoneria internazionale. Quella vera che controlla i governi e le banche centrali. Quella che disegna dietro le quinte gli scenari della storia, i colpi di stato, le guerre, le rivoluzioni, le crisi. Soprattutto quella che non si può nominare, e che Saviano infatti non nomina mai. Perchè chi nomina quella massoneria in RAI si brucia, viene messo da parte. Allora dovremmo riscrivere la Storia d’Italia. E non solo capisci che i cattivi non sono tutti da una parte, devi dire che la Lega fa parte del gioco, che la sinistra fa parte del gioco, e che come oramai, presto o tardi capiranno tutti, nel 92 l’italia fu vittima di un attacco concentrico da parte di molti servizi di sicurezza stranieri con la regia della grande massoneria d’oltremanica. Ma questo Saviano non lo dice, deve firmare contratti con mondadori.
Alla vigilia della notizia dell’arresto del boss dei casalesi Antonio Iovine. Impresa che mi lascia perplesso per la tempistica nei confronti di un latitante che da 15 anni, non risulta abbia vagato tra Antigua, la Savana i poli o in Pakistan, ma è stato acciuffato nella sua Casal di Principe, in provincia di Caserta, che non è grande come Los Angeles. Lo hanno preso proprio ieri nella terra di quel Saviano divenuto famoso grazie a un libro in cui racconta la Camorra di quelle terre, e all’indomani delle dichiarazioni rese a “Vieni via con me” davanti a milioni di telespettatori. Voglio sperare non si sia ripetuta la saga già vista per Bernardo Provenzano, protetto dallo Stato fin che è servito. Perché se l’arresto di Iovine fosse servito a tentare di dare prestigio al ministro Maroni, e quindi al governo Berlusconi, c’è da sperare che ogni settimana Saviano faccia il botto in tivù.
15. ANALOGIE TRA LE INCHIESTE “MANI SEGRETE” DI CORDOVA E WHY NOT» DI DE MAGISTRIS.
Agostino Cordova, allora procuratore di Palmi, tentò con questa inchiesta di districarsi tra gli intrecci tessuti dalle logge massoniche. Tra molte difficoltà raccolse molto materiale che gli sarebbe servito a dimostrare l’esistenza di un rapporto vincolante tra ‘ndrangheta e politica. Il procuratore riuscì a porre sotto sequestro il computer del Grande Oriente d’Italia contenente l’archivio elettronico di tutte le logge massoniche italiane. L’inchiesta si allargò fino a produrre circa 800 faldoni e sottoporre ad indagine più di sessanta persone. La maxi inchiesta di Cordova coinvolse influenti personaggi dell’imprenditoria, della finanza, della politica e della stessa magistratura, anche non strettamente calabrese. Furono trovate tracce di alcuni grossi scandali come quello legato al traffico di rifiuti tossici, del commercio illegale di armi, degli appalti, fino ad arrivare a sospettare di un traffico di uranio con l’ex Unione Sovietica.
Dopo circa due anni di indagini, nel 1994, l’inchiesta fu tolta dalle mani di Agostino Cordova e trasferita alla Procura di Roma, dove rimase a prendere polvere fino al 3 luglio 2000 quando il giudice per le indagini preliminari Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, accolse la richiesta di archiviazione dell’inchiesta dichiarando il “non luogo a procedere nell’azione penale per 64 indagati ritenuti appartenenti alla massoneria”.
Più recentemente ha visto la luce un altra inchiesta che ha tentato di scavare nei rapporti tra malavita calabrese e massoneria, la celebre inchiesta Why Not.
Negli atti di «Why Not», i cui faldoni sono stati oggetto di varie peripezie, prima sequestrati dalla procura di Salerno e in seguito risequestrati dalla procura di Catanzaro, si ipotizza ci siano le prove della riorganizzazione di una “nuova loggia P2” partendo proprio dalle logge calabresi.
De Magistris, nel dicembre 2007, dichiarò alla Procura di Salerno “le indagini Why Not stavano ricostruendo l’influenza di poteri occulti (…) in meccanismi vitali delle istituzioni repubblicane: in particolare stavo ricostruendo i contatti intrattenuti da Giancarlo Elia Valori, Luigi Bisignani (n.d.r. che dalle carte di Gelli risulterebbe l’affiliato alla loggia P2 tessera 203), Franco Bonferroni e ancora altri, e la loro influenza sul mondo bancario ed economico finanziario. Giancarlo Elia Valori pareva risultare ai vertici attuali della “massoneria contemporanea” e Valori s’è occupato spesso di lavori pubblici”. Nell’inchiesta Why Not compaiono i nomi di politici, consulenti che operano ad alti livelli nelle istituzioni, finanzieri, un generale della Guardia di Finanza, magistrati, affaristi e alcuni uomini appartenenti ai servizi segreti, tutti massoni. I reati ipotizzati sarebbero quelli di associazione a delinquere, truffa aggravata ai danni della Ue e violazione della legge sulle società segrete.
L’indagine oggi pare essere giunta ad un punto morto e sembra che il suo destino debba essere il medesimo dell’inchiesta iniziata dal procuratore Cordova.
Cos’è cambiato da Cordova a De Magistris? Semplicemente che molti dipendenti pubblici tra il 2001 e il 2007, con il sostegno di politici, affaristi e ‘ndranghetisti amici, hanno fatto carriera e il loro potere è aumentato.
Politica, affari e massoneria, dunque, ieri come oggi.
Come noto, l’inchiesta di Cordova sulle logge massoniche, dopo il trasferimento del magistrato alla procura di Napoli (promuovere per rimuovere), venne infatti affossata dalla procura di Roma nel giugno 1994 e affidata ai P.M., Lina Cusano e Nello Rossi. Il procedimento restò pressoché fermo per quasi sei anni, eppoi nel dicembre 2000 il giudice per l’indagine preliminare Augusta Iannini dispose la formale archiviazione dell’inchiesta, nonostante fossero stati raccolti ben 800 faldoni e innumerevoli fonti di prova sulle attività illecite delle più importanti logge italiane con ben 61 indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano e, tuttora, continuano a spartirsi A distanza di oltre 16 anni dalla strage di Capaci la “pax mafiosa” rischiava, oggi, nuovamente di incrinarsi sotto i colpi delle nuove investigazioni delle procure di Catanzaro, Potenza e del G.I.P. di Milano, Clementina Forleo, ma con l’illegittima avocazione delle indagini del P.M. De Magistris, da parte del Procuratore Generale e le strumentali procedure di trasferimento avviate dal C.S.M., anche nei confronti del G.I.P. di Milano, Forleo, la storia si ripete, dando un segnale forte alla magistratura non asservita alle logiche delle logge e dei partiti di regime, che oltre un certo livello non si può indagare.
Chi lo fece, come Falcone e Borsellino, pagò con la vita.
Nel nuovo ordine sociale “massomafioso” il prezzo è il pubblico discredito, la delegittimazione, la procedura di trasferimento, le minacce velate, gli incidenti mortali… E’ ciò che puntualmente accade quando si toccano i poteri forti e l’intreccio tra affari, mafia, politica, massoneria.
16. In tutto ciò ci domandiamo dov’è lo Stato?
Chi controlla effettivamente il territorio? Perché si lascia che le mafie procurino lavoro ai giovani del sud nell’industria del crimine organizzato? Perché Saviano è costretto a vivere blindato e a trovare protezione in un altro Paese? Perché si costringe un intero Paese a non nutrire fiducia nelle istituzioni e i giovani di tante regioni depresse e quartieri degradati a non avere altra possibilità di scelta di vita, se non quella di imparare prima possibile ad usare pistole o Kalascinkov?
Si tratta, insomma, di fare tesoro del sacrificio e dell’esperienza dei tanti magistrati trucidati dalle mafie, la cui nefasta influenza si è dimostrata essere in grado di controllare anche la vita politico-istituzionale e giudiziaria, da sud a nord del Paese, come hanno, invano, ripetutamente cercato di farci capire con accorati inascoltati appelli, quegli stessi giudici oggi celebrati come eroi, simbolo del riscatto della società civile, alla ricerca di sé stessa, a partire da Giovanni Falcone (all’epoca ipocritamente accusato di protagonismo) sino a Gherardo Colombo che, pochi giorni, ha amaramente annunciato la propria decisione di dimettersi dalla magistratura, constatando che in Italia le regole continuano ad essere un optional e che preferisce dedicarsi “all’insegnamento e all’educazione delle giovani generazioni”, molto più ricettivi dei politici ai grandi temi della legalità, come dimostra l’imponente manifestazione di Reggio Calabria.
L’epilogo di mani pulite dimostra che la lotta alle mafie e alla corruzione non può più quindi rimanere prerogativa di pochi magistrati coraggiosi e isolati dalla gente, che spesso di risolve in una guerra fra bande politiche rivali per accaparrarsi il controllo del territorio, come scriveva acutamente Massimo Fini. E’ arrivata l’ora della gente comune. Ci troviamo di fronte a una svolta epocale in cui i cittadini e le associazioni della società civile sono chiamati a prendere in mano le redini del futuro del Paese, esprimendo una nuova generazione di politici, intellettuali, scienziati e uomini liberi da collari e padrini, per un armonioso sviluppo della società, come afferma Hannah Arendt che auspica si educhino generazioni in grado di pensare e di provare emozioni, ponendo in risalto l’importanza della creatività, intesa come capacità di trovare soluzioni innovative per il proprio spazio individuale e per lo spazio pubblico.
In buona sostanza, per avviare fasi di crescita economica e di sviluppo a tutto campo la società contemporanea deve offrire il massimo spazio possibile ai giovani, i soli in grado di esprimere una nuova “classe politica creativa”, caratterizzata da un elemento fondamentale, la creatività, ovvero l’energia che consente di introdurre elementi innovativi, di apportare idee e soluzioni originali rispetto alle tradizionali organizzazioni associative e ai consueti schemi produttivi. E’ questa la “ricetta” che ci viene suggerita anche da alcuni studiosi come Richard Florida in “L’ascesa della nuova classe creativa”, ove si auspica che le persone di talento, dagli ingegneri ai musicisti, sappiano e possano dare alle altre classi delle prospettive concrete per costruire un futuro migliore, valorizzando la creatività, definita concretamente come “attività a tutto campo, ricettività intellettuale, diversità etnica, apertura politica”.
La voce dei giovani di ogni parte di Italia, unita a quella dei loro padri che non si sono piegati alle logiche delle mafie, rappresenta quindi l’unica grande speranza per l’intero Paese per la progressiva realizzazione di un mutamento socio-culturale, da lungo tempo in atto, le cui istanze di giustizia e legalità, largamente condivise, non possono essere ormai oltremodo rinviate, risultando intollerabile che il potere politico, economico e amministrativo e le istituzioni dello Stato possano continuare a venire lasciate governate dalla criminalità organizzata.
La libertà individuale e la vittoria contro la masso-mafia possono essere infatti solo risultato di un impegno collettivo per la giustizia, diversamente, utilizzando una celebre frase di Cornelius Castoriadis, uno dei maggiori filosofi politici del nostro tempo, «continueremo ad accumulare spazzatura», privando le nostre vite e anime di senso. Il guaio della nostra civiltà è che ha smesso di interrogarsi. Nessuna società che dimentichi l’arte del porsi domande o che permetta a quest’arte di cadere in disuso può sperare di trovare risposte ai problemi che l’assillano, certamente non prima che sia troppo tardi o che le risposte, benché corrette siano divenuti irrilevanti. [Op. cit. (8)].
P.S.: Tale saggio, rimasto incompleto, è stato pubblicato per la prima volta in data 18.11.2011 e il suo Autore non è in seguito riuscito a completarlo con gli avvenimenti più recenti che hanno coinvolto la Lega Nord e i suoi padrini, in quanto Pietro Palau Giovannetti è stato travolto da una nuova ondata di procedimenti ritorsivi da parte delle procure di Milano e Brescia per reati ideologici che hanno portato al suo arresto illegale all’aeroporto di Atene, di cui abbiamo dato notizia sui siti web dell’Associazione.
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25. “Raul Gardini e Gabriele Cagliari, due omicidi massofiosi, rimasti impuniti”:
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26. Panorama 21.9.95, Intervista al Procuratore Salvo Boemi
27. L’Espresso 16.7.98, Intervista al Sostituto Dr. Roberto Pennisi
28. “L’orgia del potere: testimonianze, scandali e rivelazioni su Silvio Berlusconi” Di Mario Guarino, Ed. Dedalo
29. Tribunale di Firenze, ufficio del GIP, Sentenza contro Salesi Giovanni + 21, cit., p. 40 e p. 91
30. Tribunale di Firenze, Sentenza contro Al Barrage Ibrahim Alì + 39, cit., p. 40
31. Tribunale di Firenze, Sentenza contro Al Barrage Ibrahim Alì + 38, 14 luglio 1994, p. 61