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L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE

venerdì 04th, Gennaio 2008 / 15:08 Written by

di Elena Piccinelli 

Da diversi decenni ci si interroga in tutto il mondo sul senso di mantenere in vigore la pratica della pena capitale.

Al termine della seconda guerra mondiale il tema iniziava ad essere sentito, ma si pensava anche che non fosse il momento adatto ad affrontarlo; in molti ritenevano, infatti, che per coloro i quali venissero riconosciuti colpevoli di crimini di guerra e contro l’umanità la pena di morte rappresentasse una sorta di giusto risarcimento per le vittime.

Nel 1800, addirittura, in pratica nessuno metteva in discussione che per tutta una serie di reati violenti, ma spesso anche di opinione, si potesse ricorrere all’esecuzione dei condannati; tra le pochissime eccezioni bisogna citare lo Stato di San Marino, che abolì la pena di morte già nel 1865.

Oggi la situazione è notevolmente cambiata: all’inizio del 2007 (dati dell’associazione "Nessuno tocchi Caino") si contano 54 stati al mondo che mantengono la pena di morte nei loro ordinamenti (tra questi ritroviamo 11 democrazie liberali, quali Stati Uniti, Giappone, India), 4 che stanno attuando una moratoria delle esecuzioni, 1, la Russia, che sta attuando una moratoria e si è impegnata ad abolire la pena di morte, 37 paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono cioè sentenze capitali da almeno 10 anni, 10 abolizionisti per crimini ordinari, 91 abolizionisti totali.

A partire dal 1990 decine di Stati hanno quindi abolito la pena capitale, spesso a seguito di periodi di moratoria e di studio degli effetti della stessa sulla criminalità. Interessante il caso degli Stati Uniti, considerati generalmente sordi alle richieste che giungono da più parti di riconsiderare in modo definitivo la loro posizione sulla pena di morte: in realtà il dibattito interno sull’argomento è molto vivo e sono molti gli Stati, in virtù della loro relativa autonomia legislativa, che hanno abolito la pena capitale o che stanno attuando una moratoria; unica eccezione il Connecticut, che ha effettuato nel 2005 la prima esecuzione dopo 45 anni. Ma non si può non notare il curioso atteggiamento dell’opinione pubblica: se da un lato in molti Paesi mantenitori vi è un forte movimento abolizionista, dall’altro in Paesi abolizionisti anche da numerosi decenni (come l’Italia) si assiste alle richieste periodiche di reintroduzione della pena di morte, in genere a seguito di casi di cronaca particolarmente efferati ed a cui viene spesso dato grande spazio nei mezzi di informazione. Molto meno risalto viene dato ai risultati di numerosi studi, commissionati dalle Nazioni Unite (1998 e 2002) e da varie organizzazioni per i diritti umani che dimostrano come la pena capitale non risulti essere un deterrente alla criminalità. Tra le ragioni addotte dalle associazioni e dai Paesi abolizionisti va poi ricordata la possibilità di errore: bisogna dire che sono innumerevoli i casi di errori giudiziari documentati in diversi Stati, talora aggravati da false confessioni estorte con la tortura (numerosi gli episodi avvenuti in Cina e Arabia Saudita), o da processi farsa (imputati appartenenti a gruppi etnici discriminati o privi dei mezzi economici necessari per assicurarsi un’adeguata assistenza legale, eventualità verificatasi più volte anche negli Stati Uniti). Una delle tante battaglie delle associazioni di diritti umani riguardano la richiesta di non applicabilità della pena di morte ad imputati minorenni o affetti da malattia mentale; in questi casi l’esecuzione risulta essere particolarmente crudele, ma purtroppo sono ancora molti i casi che si verificano ogni anno di condanne ed esecuzioni di persone appartenenti a queste due categorie. Se si pensa ad uno Stato che prevede la pena di morte la mente va subito agli Stati Uniti: considerando però il numero delle esecuzioni, si vede che gli USA non detengono questo triste primato, anche se da parte di chi è contrario alla pena capitale si fa forse più fatica ad accettare la sua applicazione in uno Stato liberale e che si fregia del diritto di esportare il proprio modello democratico nel mondo, rispetto a quanto avviene in un regime dittatoriale. In realtà la quasi totalità delle esecuzioni avviene in Asia e, anche se molti Paesi asiatici non forniscono dati ufficiali sul numero delle condanne e delle esecuzioni, facendo delle stime, probabilmente in difetto, si può affermare che il maggior numero di sentenze capitali vengano effettuate in Cina, Iran ed Emirati Arabi. Spesso qui non ci sono garanzie sulle modalità di esecuzione dei processi, sulla possibilità per gli imputati di difendersi in modo appropriato, magari facendo ricorso ad un aiuto legale, di norma non si prevedono pene alternative per i minorenni o i malati di mente. Sono stati documentati numerosi casi di false confessioni ottenute torturando i sospetti e, in particolare in Arabia Saudita, frequentemente gli imputati non sanno quali sono i capi d’accusa, a che punto sia il procedimento giudiziario, che sono stati condannati, quando verrà eseguita la sentenza (quest’ultimo punto è condiviso anche dal Giappone, dove i condannati vengono informati della prossima esecuzione un’ora prima della stessa, negando quindi la possibilità anche solo di salutare i propri cari). La Cina detiene il primato per numero di esecuzioni, mentre in Iran ed Arabia Saudita si assiste al record percentuale di condanne capitali in relazione alla popolazione. I Paesi che ancora mantengono la pena capitale, inoltre, la applicano per reati molto diversi: se da un lato negli Stati democratici non abolizionisti la pena di morte è prevista "solo" per reati violenti, in molti Stati asiatici ed africani si rischia la condanna per traffico di droga (si sospetta che questa imputazione venga talvolta utilizzata per togliere di mezzo anche dei semplici oppositori politici) e per altri reati in occidente considerati minori, mentre, in alcuni Paesi nei quali gli ordinamenti giudiziari sono improntati al fondamentalismo religioso sono passibili di esecuzione anche coloro i quali si macchiano di comportamenti sessuali considerati contrari alla morale (tra questi omosessualità ed adulterio). Coloro i quali si battono per il rispetto dei diritti umani e per l’abolizione della pena di morte dal nostro pianeta sottolineano certamente tutti questi aspetti, ma probabilmente le motivazioni più profonde ed imprescindibili che stanno alla base delle loro campagne sono quelle più squisitamente morali: l’esecuzione di qualcuno che si è macchiato di crimini più o meno gravi gli nega la possibilità di redimersi e di riparare in qualche modo al male commesso e, soprattutto, ha uno Stato il diritto di disporre della vita di un suo cittadino, anche se si è macchiato di gravi delitti? Secondo molti la risposta è no, considerando che lo Stato ha la possibilità di utilizzare mezzi incruenti e sicuramente più efficaci per difendere la sicurezza delle persone e per reprimere il crimine; la pratica dell’esecuzione, di cui si mette in risalto la crudeltà, va quindi contro alla dignità ed alla sacralità della vita umana, oltre a risultare inutile.

Come scriveva Dostoevskij ne "L’idiota": «La punizione di uccidere chi ha ucciso è incomparabilmente più grande del delitto stesso. L’omicidio in base ad una sentenza è incomparabilmente più atroce che non l’omicidio del malfattore».

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