Due storie parallele, molto attuali, che ci portano a riflettere sulla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati.
di Pietro Palau Giovannetti
Faceva il pane in un mulino antico che non riusciva più a mantenere. Un uomo semplice, mani nodose di chi lavora la terra: si è suicidato.
Mi son detto: “solo due realtà possono spingerti a quel punto se si parla di crisi: le banche o Equitalia“. E infatti…
Ogni giorno mi arrivano lettere di disperazione che raccontano storie simili, alcune non riesco neanche a leggerle. Anche per questo continuo la BATTAGLIA PER MURARE EQUITALIA: mandami la tua testimonianza!
Per salvare il mugnaio sarebbe bastato il Reddito di Cittadinanza: Casaleggio oggi l’ha ricordato in un’intervista al Corriere della Sera.
Per finire immancabile la dose di disinformazione quotidiana: CHIEDEREMO I DANNI A LA REPUBBLICA se non rettificheranno il falso articolo che infama il M5S.
Beppe Grillo
SIAMO D’ACCORDO, ma pensiamo che bisogna “murare” anche la magistratura di regime corrotta e asservita alle banche e ai poteri forti.
I cittadini onesti che denunciano usura e abusi vengono il più delle volte archiviati senza alcuna indagine e condannati alle spese processuali e spesso, chi si ostina a denunciare, confidando nella legalità e nello Stato di diritto, viene anche privato della libertà, come me, subendo innumerovoli processi e condanne a svariati anni di carcere per diffamazione, calunnia, oltraggio e resistenza.
Il mugnaio buono, Silvio Paoselli, che faceva il pane nel suo antico mulino, venduto all’asta, non si sarebbe certamente suicidato se avesse potuto trovare “un giudice a Berlino”, come l’altro più noto mugnaio Arnold, citato da Brecht, che non poteva più pagare il fitto “perché gli s’è levata l’acqua e quindi non può macinare”, ma che ebbe la buona sorte di vedere accolte le sue petizioni da un governante che aveva veramente a cuore la buona amministrazione della giustizia, cosa sempre più rara ai nostri tempi.
Ci riferiamo al processo del mugnaio di Potsdam, narrata da Emilio Broglio (1880), il quale a chi lo minacciava d’espropriazione del suo mulino ad acqua, confidando nella giustizia, rispose fieramente appunto: “Ci saranno pure dei giudici a Berlino?”. E Re Federico II, quale padre del popolo, lo rispettò, restituendogli il mulino e condannando i giudici che avevano respinto le sue istanze ad un anno di fortezza e al risarcimento del danno, affermando che “un tribunale ingiusto è più pernicioso d’una banda di ladri; contro questi potete difendervi, non così contro quello”. E li fece mettere in carrozza e portare in prigione. Pura utopia in un Paese come il nostro, asservito alle massomafie, dove la legge sulla responsabilità della magistratura è destinata a rimanere lettera morta, fin quando a decidere saranno sempre e solo altri magistrati facenti parte della Casta.
Nella sentenza del 24/11/2011 (causa C-379/10), che ha visto contrapposti la Commissione europea alla Repubblica italiana, la Corte di Giustizia UE ha statuito che: “La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave,ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n.117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado”. Sentenza che ha dato luogo alla nuova Legge sulla responsabilità civile della magistratura.
Video: “La storia del mugnaio Silvio Paoselli serva da esempio”
https://www.youtube.com/watch?v=EiiAZGZu6CA
Leggi in calce la storia del mugnaio di Contigliano, Silvio Paoselli e del suo Mulino “Mola di mezzo”, a cui aveva dedicato tutta la sua vita, pignorato e messo all’asta dall’avida banca creditrice, di cui nessuno parla. Una storia di ordinaria ingiustizia.
Firma la Petizione Dei Mercati Contadini in ricordo di Silvio, il mugnaio buono ucciso all’asta
La vera storia del giudice a Berlino
Raccontata nei suoi particolari, anche giuridici, da Emilio Broglio, in un libro del 1880
Una vicenda esemplare che si può definire contemporanea e molto attuale che ci porta a riflettere sulla nuova Legge sulla responsabilità civile dei magistrati
La storia del mugnaio di Potsdam merita di essere ricostruita con l’aiuto di Emilio Broglio, autore di un’opera in due volumi, Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande, stampata in Roma nel 1880. Volume secondo, capitolo VI: La causa del mugnaio Arnold.
Un pensiero costante di Federico, fu la bona amministrazione della giustizia, e n’era venuto, fino dal 1747, il Codex Fridericianus. Ma passati trent’anni, morto l’illustre Cocceio, sopraggiunte le gravi cure della guerra, gli abusi, per opera della gente di toga, ripullularono. E Federico daccapo a volerli rimondare, non senza molta fatica, perché la sullodata gente di toga, salve le rare eccezioni, è sempre e da per tutto nemica ostinata delle riforme; vive di precedenti, di tradizioni, di regole formali, e non se ne sa, o non se ne vuole distaccare; gli abusi poi, sono per l’appunto opera sua, e se ne giova. Ma Federico, che era riuscito a tener fronte all’Europa, figuriamoci se voleva lasciarsi dettar la legge da quei signori; il 4 gennaio 1776, presiedette egli stesso, a dispetto della gotta, a un solenne dibattimento tra il Cancelliere di Slesia, von Carmer, apostolo della riforma, e il Gran Cancelliere von Fùrst, accanito oppositore. Il Re diede ragione al primo, incaricandolo di compilare il novo Codice; la prima parte, Prozess-Ordnung, ossia Regolamento di Procedura, fu promulgata il 26 aprile 1784, ultimo dono del gran Re al suo paese, il resto non fu compiuto che dieci anni più tardi, e sotto il nome di Codice Prussiano è ancora in vigore (?). Questo Re, schiavo del dovere, prendeva molto sul serio anche l’alto suo ufficio di Giudice Supremo, e come si vede non aveva bisogno di sproni; ma se n’avesse avuto bisogno, appunto in questi anni accadde un fatto famoso, il processo del mugnaio Arnold, dove il Re, da ultimo, si credette in obbligo d’intervenire con sommo rigore, destando sentimenti e giudizi discrepanti in Europa; di viva ammirazione nei più, di severa condanna in pochi. «Ci sono dei Giudici a Berlino», aveva risposto trent’anni prima, a chi lo minacciava d’espropriazione, il mugnaio di Potsdam, che non volle mai vendere il suo mulino ad acqua, sul poggio di Sans-Souci; e Federico Re lo rispettò, lui e il suo mulino, senza bisogno di giudici; oggi invece il mugnaio Arnold ebbe, contro i giudici di Berlino, bisogno del Re.
Il mulino del Gambero – Krebsmúhle – era d’un conte di Schmettau, maggiore nell’esercito, ma non della famiglia inclita in guerra; affittato da parecchie generazioni agli Arnold, mugnai. Nel ’70, un barone von Gersdorf volle farsi, più in su del mulino, una peschiera, e deviò parte dell’acqua; il mugnaio, impedito così dal macinare per una gran parte dell’anno, non ebbe più modo di pagare il fitto regolarmente; il conte di Schmettau, dopo aver pazientato parecchio, da ultimo lo citò dinanzi al giudice feudale, Schlecker, che lo condannò a pagare; e perché pagare non poteva, quando non macinava, finì col fargli vendere all’asta nel ’78 il mulino. Comprato da un esattore, Kuppisch, fu poi rivenduto da costui allo stesso barone von Gersdorf, ch’ebbe così l’aria d’aver meditata e compita la spogliazione. Portata la causa in appello, dinanzi alla Regierung di Cústrin, la sentenza venne trovata giusta, e quindi confermata.
Il 1° maggio del ’79, Arnold, o più esattamente sua moglie Rosina, una donna non più giovane, intendiamoci, presenta una petizione al Re, chiedendo la nomina d’una Commissione Militare, che esamini la cosa; domanda certo molto strana per noi, avvezzi oramai alla divisione dei poteri, alle più o meno savie finzioni costituzionali, e a vedere la giustizia amministrata sempre in nome del Re, da giudici nominati dal Re, senza che il Re ne sappia mai nulla; non punto strana allora, con un Re, fontana vera, non finta, d’ogni potere, e quindi anche della giustizia.
Il 4 maggio un Ordine del Re manda l’istanza Arnold al Ministero della Giustizia, perché esamini e riferisca; quello esamina e riferisce, che tutto è perfettamente in regola. Più tardi, nello stesso anno, il Gran Cancelliere von Fúrst, durante il suo viaggio d’ispezione da quelle parti, riceve un altro ricorso dall’implacabile Rosina; non so quanto lo esamini, certo è che lo respinge. Allora gli Arnold tentarono una strada nuova; il marito aveva un fratello soldato; suo colonnello era il Principe Leopoldo di Brunswick, nipote del Re, adorato dal popolo, perché buono, affabile, umano; tanto umano, che sei anni più tardi, nell’85, s’affogò miseramente nell’Oder, mentre si sforzava, in una barchetta, di soccorrere dei poveri inondati. Il soldato, un bravo soldato, bisogna dire, gli si raccomanda. Il Principe ne parla al Gran Cancelliere; ma Fúrst risponde picche anche a lui. In agosto, la madre del Principe, sorella del Re, fa una lunga visita al fratello a Potsdam; costì, Leopoldo coglie un momento favorevole e narra la lunga storia al Re, presentando una nova domanda Arnold, per una Commissione Mista, militare e civile; il giorno dopo, 22 agosto, un ordine di Gabinetto alla Corte – Regierung – di Cústrin, gl’intima di nominar subito un Consigliere, affinché per opera sua, d’accordo col Colonnello Heucking, di guarnigione da quelle parti, sia fatta giustizia. La Corte elegge Neumann, che si mette a studiare col Colonnello, ma senza frutto; perché quello riferisce alla sua Corte che non c’è nulla da fare, e la Corte presenta, il 27 settembre, rapporto analogo a Sua Maestà; il Colonnello invece s’è convinto, che Arnold aveva ragione, in equità, di non pagare il fitto d’un mulino che non macina, e fa il suo rapporto in questo senso.
Il Re lo trova chiaro e preciso – deutliches und ganz umstàndliches – e lo manda al tribunale Supremo di Berlino – Kammergericht – sempre perché sia fatta giustizia. Invece, non lo persuade punto il rapporto della Corte di Cústrin, glielo rimanda insieme alla manifestazione del suo vivo malcontento – áusserstes Misfallen – e ordina un nuovo esame. Quei signori della Corte eleggono un’altra Commissione, e questa volta ci mettono anche un idraulico, di nome Schade; la Commissione fa il suo rapporto il 28 ottobre, sempre concludendo che tutto era andato benone, benché lo Schade non fosse di questo parere; soltanto, per dimostrare quanta fosse la loro diligenza, scoprono un piccolo errore: che Arnold aveva lasciato del grano nel mulino, pel valore di centocinquanta o centosessanta lire: che questo era suo, e non si poteva comprendere nella vendita del mulino e ora gli si doveva restituire: ma per tutto il resto, non c’era che dire.
La Rosina, colla sua indomabile tenacità femminile, torna all’assalto in novembre con una nova petizione a Sua Maestà; e Sua Maestà, senz’ancora perdere la pazienza, che fu un bel fatto, la rimanda a Cústrin; gli si risponde che la sentenza è inalterabile, salvo l’ intervento di un giudizio superiore.
Il Re, con Ordine 98 novembre, incarica dunque il Kammergericht di Berlino, di pronunziare il suo giudizio definitivo, e presto! mandando un espresso a Cústrin a prendere l’inserto. Il Gran Cancelliere Fúrst, ricevuto l’ordine, lo trasmette al Presidente del Kammergericht, un von Rebeur; il quale, appena arrivate le carte, il 7 dicembre, nomina subito relatore il Consigliere Rannsleben, perché riferisca quam primum; costui, con un lavoro indefesso diurno e notturno, è in grado di riferire il giorno seguente. La sentenza è giusta e va confermata. Detto fatto, la si conferma in nome dei Re. Federico riceve la notizia formale il 10, in preda a un fiero attacco di gotta; ordina al Fúrst di venire domani al Castello coi tre Consiglieri che hanno redatto – minutirt – la sentenza. Il Rannsleben, relatore, in una sua Autobiografia inedita, racconta la scena, e questo brano, per fortuna, venne stampato.
Sentiva in aria un grosso temporale, tanto che ebbe la precauzione di non dir nulla alla moglie della sua chiamata al Castello. Entrati i tre consiglieri preceduti dal Fúrst, trovarono il Re seduto, che voltava le spalle al foco del caminetto, coi piedi tormentati stesi sopra sgabelli, una mano nascosta in un manicotto, e l’altra che teneva la sentenza; lì presso, a un tavolino, il segretario-stenografo Stellter, che stese un processo verbale, pubblicato poi il 14 dicembre per ordine di S. M.
Il Re interrogò i Consiglieri, senza darsi per inteso della presenza del Gran Cancelliere: «Un povero villano, può egli pagare il fitto, se gli portate via il carro, l’aratro, e tutti gli strumenti di lavoro? – No, Maestà». – «È giusto portar via il mulino a un povero mugnaio che non può pagare il fitto, perché gli s’è levata l’acqua e quindi non può macinare? – No, Maestà». – «Un nobile vuol farsi una peschiera e devìa l’acqua dal mulino; il mugnaio Arnold è ridotto a non poter macinare che quindici giorni in primavera e quindici in autunno; come può egli pagare lo stesso fitto di prima? Eppure la Corte di Cústrin gli fa vendere il suo mulino, perché un altro nobile intaschi l’intero fitto, e il Tribunale di Berlino…». Il Kammergericht, Maestà, suggerisce qui, o corregge, il Gran Cancelliere, il Kammergericht… Il Re dice al segretario: Il Kammergericht; poi, volgendosi al Fúrst, gl’intima di andarsene, aggiungendo d’avergli già nominato il successore; e quello scompare senza dir verbo.
«È una sentenza ingiusta, continua il re accendendosi vie più; è contraria alle mie intenzioni di padre del popolo; e voi l’avete pronunziata in mio nome. In mio nome! Quando mai ho io oppresso il povero in favore del ricco? Quando mai ho fatto prevalere la vana forma legale all’intrinseca moralità della cosa? E voi siete de’ giudici? E voi dispensate la giustizia in nome di Dio e del Re?…». E più che il dolor potendo l’ira, batteva la sentenza colla mano gottosa, e ripeteva: «Il mio nome crudelmente abusato! – meinen Namen cruel missbraucht» –
«Ma io darò un esempio memorabile – ein nachidrúckliches Exempel; – l’ultimo contadino, che dico? un mendicante. è anch’egli un essere umano come il Re, tutti eguali dinanzi alla legge e alla giustizia; un tribunale ingiusto è più pernicioso d’una banda di ladri; contro questi potete difendervi, non così contro quello. Uscite. signori!».
E li fece mettere in una carrozza e portare in prigione; ordinò lo stesso trattamento pei loro colleghi di Cústrin; incaricò il suo ministro della giustizia, von Zedlitz, di nominare una Commissione, che li condannasse almeno a un anno di fortezza e al risarcimento del danno verso gli Arnold.
Il ministro uomo rettissimo, dichiara ne’ termini più rispettosi, che la sua coscienza non gli permette di pronunziare la sentenza imposta da Sua Maestà; allora il Re la pronunzia lui, il 1° gennaio 1780: il consigliere Scheibler, della corte di Cústrin, che ha votato solo contro i suoi colleghi, torni al suo posto: il Rannsleben del Kammergericht, che ha studiato la questione con grande imparzialità, prosciolto: tutti – gli altri, destituiti, cassirt – condannati a un anno d’arresto in resto in fortezza, a Spandau, e al rifacimento del danno, liquidato poi e pagato all’Arnold in 1358 talleri, 11 groschen e 1 pfennig – poco più di 5.000 lire: – Il mugnaio Arnold rimesso nel suo mulino – in integrum restituirt.
«Quanto a lei, signor ministro, rispetto i suoi scrupoli di coscienza, e rimango come prima il suo affezionatissimo Re, Federico». Infatti conservò il suo posto. La cosa fece, naturalmente, gran chiasso in Europa: Caterina II, amica dei filosofi, mandò al suo Senato, come salutare esempio, copia dei processo verbale 11 dicembre 1779, fatto pubblicare il 14 dal re: in Francia lo si vendeva da tutti i librai, sotto il titolo: Balance de Frédéric; e i giornali non parlavano d’altro. A Berlino invece l’alta società, nobile e forense, condannava Federico; trasse in folla alla casa del Gran Cancelliere destituito, in segno di condoglianza, ingombrandone la via colla fila delle carrozze, che si vedevano dalle finestre del Palazzo reale, senza che Federico, ben inteso, se ne facesse né in qua né in là.
Si notò il fatto, che ogni giorno gran numero di villani, fino a un centinaio, stavano sulla piazza dei Castello, sotto le finestre del Re, con petizioni in mano, chiedendo giustizia come Arnold; e ne’ tribunali, le parti soccombenti gridavano, che si sarebbero appellate al Re; ecco, dicevano, le naturali e pessime conseguenze del suo dispotico intervento e dell’ umiliata magistratura. Questo sentimento di disapprovazione durò fino alla morte di Federico; il barone von Gersdorf, chiese e ottenne dal successore un novo giudizio; fu deciso: che il barone aveva diritto all’acqua per la sua Peschiera, e che Arnold doveva restituire ai giudici il mal ottenuto compenso, e al barone, o il mulino, o il prezzo d’asta; le quali somme, per altro, furono invece sborsate dal Re Federico Guglielmo II, atto convenientissimo di regia munificenza. E s’intende che il vecchio Fúrst, e l’altre vittime, furono richiamati ai loro posti e agli onori perduti, nella certezza, da parte del nuovo re, di cattivarsi cosi una certa popolarità; voglio dire popolarità nobilesca e forense; mentre quella ambìta da Federico era molto più vasta, e più, alta, e più indipendente.
La storia di Silvio Paoselli, il mugnaio di Contigliano, condannato a morte dalle banche assassine
Non c’è posto oggi per chi dedica la sua vita alla salvaguardia della bellezza e della semplicità della natura. E’ questo quello che sembra volerci dire, Silvio Paoselli, mugnaio del reatino, il quale dopo vani tentativi di salvare il suo mulino, è stato portato dalle speculazioni bancarie all’estremo gesto del suicidio. Il suo corpo è stato ritrovato nelle acque del Lago di Salto dove si è gettato, dopo aver inviato un sms alla sua famiglia ed ai suoi amici, in cui li pregava di prendersi cura dei suo asinelli.
Silvio faceva parte di quella parte dell’agricoltura che non voleva rinunciare alla qualità del prodotto, utilizzando ancora oggi le tecniche di una volta e macchinari agricoli antichi che con amore e sacrificio aveva raccolto nella sua “casa dell’agricoltura” realizzata a Mola di Mezzo, nel corso di un’ intera vita spesa per dare vita al suo sogno: “ricostruire la memoria di pratiche colturali ed artigianali antiche per coniugarle con le moderne tecniche agronomiche finalizzate al recupero dei grani antichi espulsi dai cicli produttivi dell’agroindustria, senza tuttavia perdere di vista l’utente finale a cui, dedicava, con grande successo, negli spazi messi a disposizione dai mercati contadini, le sue ricerche culinarie realizzate con le materie di cui aveva curato la coltivazione e la trasformazione”.
L’associazione km0, presieduta da Elisa Di Gennaro, spera ora almeno nel rispetto della memoria di Silvio, chiedendo “che gli speculatori che hanno comprato all’asta il mulino di Silvio non debbano fare del manufatto aziendale un utilizzo diverso da quello per cui Silvio ha sacrificato la sua vita, che non vengano consentiti cambi di destinazione d’uso di quel manufatto” e “che la triste vicenda della morte di Silvio sia dibattuto dal Consiglio comunale, da convocare con urgenza in seduta straordinaria per trovare un modo per impedire qualunque speculazione su quel manufatto”.
Ma intanto la storia desta scalpore ed arriva sui tavoli della regione Lazio e tra i banchi del Senato, dove il M5S e i responsabili del Mercato Contadino dei Castelli Romani chiedono che si offra alla famiglia di Silvio e a tutte le famiglie di imprenditori agricoli e di altri settori, che si sono tolti la vita per problematiche economiche direttamente connesse alla loro attività, tutto il sostegno possibile, aggiungendo tale categoria, se possibile, ai canali “sostegno a microimprese” o “crediti di emergenza” dell’appena rifinanziato fondo per il microcredito della Regione Lazio.
La possibilità quindi di permettere agli agricoltori che non riescono a ricevere credito e finanziamenti, dagli istituti bancari, di potersi appoggiare alla Regione Lazio per il sostegno, al fine di non cadere così nel vortice dell’estorsione “legale” e non, che in questi tempi come non mai sfrutta l’assenza dello Stato per arricchirsi a discapito della gente onesta.
Una storia dunque già sentita, in un periodo di crisi dove gli interessi economici dei grandi operatori finanziari e l’applicazione di una legge che non guarda alla realtà effettiva delle situazioni, portano sempre più le persone a vedere come unica via di salvezza la morte, quasi come fosse l’ultimo grido volto alla rivendicazione della determinazione del proprio destino.
Una vicenda che ha nuovamente portato alla luce le ingiustizie sociali presenti oggi nel nostro paese, e che grazie all’impegno dei movimenti sociali locali speriamo non venga relegata ancora una volta nel solito dimenticatoio.