PARAPLEGICO ARRESTATO PER EVASIONE SULLA SEDIA A ROTELLE
ENNESIMA PARADOSSALE MISURA DEL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
Avrebbe dovuto uscire il prossimo 18 aprile 2018 per fine pena, si trovava ricoverato presso l’Unità Spinale dell’Ospedale di Niguarda. Ora è in carcere a S. Vittore per ordine del Giudice di Sorveglianza che lo ha ritenuto responsabile di “evasione” per essere uscito dalla stanza a fumare una sigaretta sulla sedia a rotelle in pigiama. Il suo nome è Giuseppe, 53 anni, di cui 15 trascorsi in carcere. Da un anno era agli arresti domiciliari, in differimento pena per le sue gravi condizioni di salute. Dopo un’operazione alla spina dorsale per spostamento della colonna vertebrale e un’infezione che gli ha paralizzato entrambe le gambe. Si trova da tempo immobilizzato su una carrozzella. Negli ultimi 12 mesi ha girato ben 7 ospedali, senza riuscire a ricevere le necessarie cure riabilitative. Finalmente il 20/2 u.s. l’Unità Spinale di Niguarda lo convoca a Milano, essendosi liberato un posto letto. Ma deve presentarsi entro dodici ore, E, così, informa i Carabinieri che da Nola si reca a Milano, per venire ricoverato in via d’urgenza. Sale sul primo treno di Italo. A Niguarda per circa 15 giorni le cure riabilitative iniziano a dare buoni risultati, ma tutto viene interrotto inaspettativamente, perché il paziente avrebbe “contravvenuto” alle disposizioni impartire dal Tribunale di Sorveglianza, per essere uscito a fumare, spostandosi dalla stanza da letto nella zona fumatori adiacente, oltrepassando una porta scorrevole automatica. Cosa che ha abitualmente fatto ogni giorno senza alcun tentativo di fuga, rientrando dopo poco in camera da letto a bordo della sua sedia a rotelle, munito di catetere vescicale e pannolone, con cui si è contortamente assunto avrebbe “violato gli obblighi di legge”.
A distanza di 15 giorni dal “fattaccio” alle 7 del mattino, si presentano in Ospedale gli agenti della Polizia di Stato, notificandogli l’ordine di arresto in carcere.
Il medico di reparto dell’ospedale da singolarmente il “nulla osta” alla traduzione in carcere. Per di più il medico curante non predispone neppure che la traduzione avvenga con l’ambulanza. Ragione per cui la Polizia Penitenziaria cerca in un primo tempo di trasportarlo rinchiuso in una gabbia di cm 60×80, ricavata nel bagagliaio di un furgoncino tipo Fiorino Fiat, di norma utilizzato per il carico di merci e non di esseri umani. Dove, ovviamente, non riescono a sistemarlo anche per la presenza della ingombrante sedia a rotelle, che non trova spazio sul mezzo. Dopo ore di attesa la scena si ripete con un mezzo poco più ampio dove comunque non trovano posto né il paziente detenuto né tantomeno la carrozzella. Intono all’una di notte del 7/3 u.s., dopo 18 ore di attesa, giunge finalmente una autoambulanza e verso le 2,30 di notte l’uomo viene recluso in carcere, dove tuttora si trova in attesa di processo per “evasione”, rischiando ulteriori sei mesi di carcere che ne ritarderebbero il rilascio per fine pena, già fissato al 18.4 p.v. pregiudicando irragionevolmente, in maniera grave e irreparabile le possibilità di riabilitazione e di poter ritornare presso l’Unità Spinale di Niguarda. Un caso emblematico di malagiustizia e malasanità che mette in luce l’uso indiscriminato e contro ogni principio di umanità da parte dei Tribunali di Sorveglianza, della detenzione in carcere, a scapito delle misure meno afflittive, comunemente utilizzate in paesi più civili ed evoluti, come la Spagna, la Norvegia, la Svezia etc. Si parla quasi ogni giorno da mesi del caso “Corona”, vittima di una evidente persecuzione giudiziaria, ma nulla si dice dei tanti casi di soggetti gravemente malati, spesso anziani di oltre 70 o 80 anni, che vengono lasciati morire in carcere, sebbene incompatibili e bisognosi di cure.
Un altro uomo di 61 anni detenuto per una banale lite ereditaria, è deceduto il febbraio scorso, dopo un intervento coronario (pacemaker), eseguito presso il S.Paolo. Anziché rimandarlo a casa sua, è stato riportato in carcere, decedendo nel giro di un mese a causa di una infezione non curata. E’ stato scarcerato solo pochi giorni prima di morire, quando era ormai all’ultimo stadio. Prima di morire lui lo aveva denunciato: “mi faranno morire qui, senza avere commesso nessun reato”. Ci domandiamo se questa possa chiamarsi giustizia, e se il giuramento di Ippocrate non debba prevalere anche sull’Istituzione statale.
Ci domandiamo perché in Italia la maggior parte dei Tribunali di Sorveglianza delle più grandi sedi giudiziarie, come Milano, Roma, Torino e altre, concedono le misure alternative al carcere solo quando si è ormai prossimi alla morte? Perché i pareri dei medici delle A.S.L. in materia di incompatibilità non vengono tenuti nella debita considerazione dai Giudici? Tenuto conto che la maggior parte della popolazione carceraria dei centri clinici è detenuto per pene lievi che non destano alcun allarme o pericolosità sociale. E’ purtroppo il retaggio di una cultura mediovalistica del castigo, nella forma di supplizio, a prevalere tutt’oggi sulla funzione rieducativa della pena e sul dettato costituzionale di cui art. 27 c. 3, per cui “le pene non possono consistere in trattamento contrario al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” Ma in Italia si parla solo di Corona e dei V.I.P. e chi dovrebbe difendere la Costituzione e i diritti degli ultimi progetta invece di costruire più carceri, anziché svuotarle e umanizzare le pene. Senza capire che solo attuando un cambiamento culturale e la riforma dell’ordinamento penitenziario, dando concreta possibilità di lavoro e di rinserimento sociale, possiamo eliminare la povertà e la miseria, ovvero la criminalità, da cui traggono origine ed anche tutte le mafie. La disumanità delle carceri è lo pecchio della disumanità dell’intera Società civile e dei suoi governanti.
a cura dello staff di Avvocati senza Frontiere