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LA MISTIFICAZIONE DELLO STATO DEMOCRATICO

venerdì 25th, Aprile 2008 / 20:05 Written by
in Saggi

di Angelo Casella

Democrazia e Stato sono realtà totalmente antitetiche e incompatibili, nel senso che lo Stato (come ovunque è strutturato) non può essere “democratico”.

Democrazia significa sostanzialmente due cose: parità dei membri del gruppo sociale e loro partecipazione alla gestione della cosa pubblica.

Lo Stato risulta invece formato da un gruppo di persone che è controllato, guidato e comandato da una ristretta oligarchia che gestisce in modo autonomo  e discrezionale il potere pubblico.

L’elemento di armonizzazione fra queste contrapposizioni viene universalmente individuato nel voto popolare, una sorta di delega con la quale i componenti la società incaricano alcune persone della relativa  amministrazione.

L’adozione di questo espediente ha potuto introdurre nella Storia il mito dell’invenzione dello “Stato democratico”: un passaggio considerato “epocale” tra il regime  monarchico e quello con “rappresentatività popolare”.

Oggi, tutti gli Stati del mondo che si qualificano progrediti e moderni hanno adottato  questo emblema della “democraticità”: il meccanismo elettivo, e guardano con distaccato disprezzo ai tiranni che, ancora in gran numero, impongono il loro arbitrio al popolo sottomesso.

In realtà, tutto ciò è solo una colossale mistificazione poiché, a ben guardare, non vi è alcuna differenza sostanziale tra le due tipologie di reggimento della cosa pubblica.

Non intendiamo con ciò riferirci alle pur gravi pecche ed alterazioni che caratterizzano – sotto ogni latitudine – la consultazione popolare e che la rendono una semplice sceneggiata priva di contenuto. 

E’ necessario invece rendersi conto che le grandi rivoluzioni contro i dispotismi monarchici, che hanno segnato la storia dell’umanità, non hanno minimamente toccato il sistema di potere dello Stato, che vede ancora una società a struttura piramidale, al cui vertice siedono persone che dispongono a loro piacimento del potere pubblico.

Tra il potere esercitato da un Luigi XIV e quello di un qualsiasi capo di governo “democratico”, non vi è tecnicamente alcuna differenza.

Anche qui, è necessario incidentalmente precisare che cosa è il potere pubblico, quel potere, per intenderci, che si esplica in modo COERCITIVO sui membri della collettività.

Facciamo un esempio semplice per rendere evidente il concetto. Un gruppo di pescatori frequenta un laghetto dove ognuno pesca liberamente come e quanto vuole. In breve, la fauna ittica diminuisce e sta per scomparire del tutto. A questo punto, i pescatori si radunano  e concordano, nell’interesse comune, che ognuno di essi potrà pescare solo nei tempi e con le modalità stabilite. I pescatori hanno realizzato un accordo normativo, ossia una legge valida per loro.

Il concorso dei membri del gruppo ha creato il potere pubblico. Esso è frutto dell’accordo paritario che ha individuato l’interesse comune (o pubblico), la cui tutela giustifica, appunto, il potere pubblico.

Nel caso dello Stato il potere pubblico non è conseguenza dell’accordo tra i membri in relazione a dei contenuti (ed in ragione di essi), ma è derivazione del ruolo del quale diventa prerogativa specifica (il vertice può emanare le regole).

Prescinde del tutto dai contenuti delle regole emanate (e rese coercitive) e dalla partecipazione della collettività: non vi è accordo normativo, ma imposizione particolare.

Questa personalizzazione del potere pubblico, oltre a favorire infiniti spazi di abuso, genera personalismi nel suo utilizzo ed è alla base della creazione dei confini territoriali, che delimitano gli spazi di ogni potere statuale  e che ingenerano particolarismi geografici innaturali, poiché ogni comunità è tale in base ad un titolo associativo (una condivisione di interessi che essa soltanto può definire) che rifugge da imposizioni coattive.

Torniamo al voto. Quando si parla di voto ci si riferisce ad una delega concessa da un cittadino ad un altro cittadino perché si occupi dell’amministrazione della cosa comune. Si tratta cioè di un incarico specifico. Si pensi all’amministratore di un Condominio. Il potere che gli viene attribuito dai condomini ha dei contenuti ben definiti. Egli non dispone di un potere generico i cui contenuti siano discrezionali. Ha il potere di fronte a tutti di eseguire i precisi compiti che l’insieme dei condomini gli ha delegato. Questo è, in nuce, il potere pubblico.

Ed ecco invece che, da sempre, con le elezioni, i candidati acquisiscono una delega in bianco: il cittadino che vota – in altre parole – conferisce ad un altro un potere discrezionale ed arbitrario. Cioè gli assegna un potere sulla sua persona.

Questo conferimento realizza una situazione di dipendenza che è l’esatto contrario della democrazia la cui essenza, come si è detto, significa eguaglianza e  partecipazione.

La delega in bianco crea due categorie di cittadini: quelli che comandano e quelli che ubbidiscono ed esclude qualunque partecipazione, poiché i delegati dispongono del più completo arbitrio in ordine alle scelte da effettuare.

E’ assiomatico invece che in democrazia nessuno deve poter disporre di aree di potere autonome, da gestire arbitrariamente e senza controllo.

La frase, contenuta in più o meno tutte le costituzioni statali “democratiche” per la quale “la sovranità  (ossia il potere) spetta al popolo” è pura retorica priva di sostanza se il popolo stesso non ha la possibilità di dettare ai delegati le scelte, gli interventi e le realizzazioni che costoro debbono porre in essere e non gli è consentito di mandarli a casa in qualsiasi momento, di intervenire sulle decisioni da prendere o prese e controllare la corretta esecuzione dei compiti affidati.

E vi è altresì un altro ordine di considerazioni che converge con le precedenti e ne rafforza la conclusione.

Lo Stato, quale che ne sia l’ordinamento, risulta dotato di una intelaiatura gerarchica, che è del tutto ingiustificata. Dalle amministrazioni comunali a quelle provinciali e regionali a quelle statali, il cittadino ha sempre sopra di lui qualcuno che gli ordina cosa deve fare e come.

Il fenomeno del conferimento ad un rapporto con altri della tipologia gerarchica (che pone questi altri in posizione a lui subordinata) risponde all’intento dell’agente di estendere la propria individualità (o sfera personale) incrementandola con il ricomprendere in essa altre persone.

E’ il caso di chi si dota di efficaci strumenti atti ad incrementare e potenziare la propria attività, come l’imprenditore, il quale vuole porre in essere un tipo di attività economica eccedente le sue forze. Non a caso, il termine gerarchia  rivela le sue origini, ed il suo senso profondo, dalla etimologia da cui nasce: ίέροσ (sacro) e άρχώ (capo) , ovvero “capo delle cerimonie religiose”, in pratica, colui che vorrebbe legittimare il potere sugli altri da una presunta designazione divina: un rituale che connota la storia dell’umanità, fin dai tempi più antichi e che vede ogni tanto ricomparire qualche “unto” del Signore.

Il senso e lo scopo della gerarchia si individua nel far fare alle persone sottoposte ciò che vuole il vertice.

La gerarchia, cioè,  serve ad unificare ed uniformizzare il gruppo, soggetto alle direttive gerarchiche, sotto la cupola degli intendimenti del capo, il quale pretende e impone comportamenti conformi al suo dettato. Del resto, la perfetta espressione della gerarchia  è il dispotismo, o tirannia.

La gerarchia, dunque,  esprime ed intende uniformità, ideale ed operativa, del gruppo, in conformità della volontà espressa dal vertice (e l’ordine scalare è funzionale, perché consente l’articolazione capillare del controllo).

E’ evidente che, se la gerarchia  si applica alla società civile, si cade nell’esatto contrario del concetto di collettività (e, perciò, di democrazia). Una collettività che venga sottoposta all’ordine gerarchico diventa infatti un organismo, ossia un insieme di strumenti collegati funzionalmente fra loro per realizzare concretamente i propositi ed il volere della testa dell’organismo stesso.

La gerarchia perciò, al pari della delega in bianco, implica anche una separazione e distinzione fra due categorie di persone: una che comanda e un’altra che esegue.

Concetti ovviamente del tutto contrapposti a quello di democrazia, intesa come ordine sociale basato sulla partecipazione. L’introduzione storica dello “Stato democratico” è pertanto una completa mistificazione, anche sotto lo specifico motivo,  in quanto non ha eliminato la struttura autoritaria, che ne caratterizza il reggimento dispotico.

Ed ecco che possiamo così renderci conto che lo stesso concetto di Stato, che in sé concretizza ontologicamente il principio gerarchico, si trova in perfetta e radicale contraddizione con il principio della democrazia, il cui significato semantico ci conduce al pluralismo.

Lo Stato è una vera truffa storica, in quanto pretende di basare il suo potere nei confronti dei componenti il gruppo sociale, sulla formale giustificazione di provvedere all’interesse pubblico. La cui individuazione e definizione spetta soltanto al pubblico, cioè ai membri della collettività e non al vertice di questa.

In realtà, la stessa struttura gerarchica è  espressione della volontà, degli intendimenti e degli interessi del vertice. Il meccanismo di formazione è intrinsecamente ostativo al risultato che si pretende. D’altronde, come si è già sottolineato, il fatto stesso che si articoli un sistema che prevede che qualcuno ordini al gruppo ciò che deve fare è all’opposto del concetto di collettività.

Il secondo, che questo vertice, anche se (teoricamente) designato dalla collettività, diventa comunque,(in ragione della tipologia della str
uttura), del tutto autoreferenziale. Infatti, dispone e gestisce del potere di perseguire il c.d. “interesse pubblico”, in modo che – in realtà – è del tutto privato ed autonomo, e secondo modalità dalle quali il gruppo sociale è escluso. Ogni scelta è frutto della elaborazione del solo vertice.

La struttura  Stato si rivela quindi funzionalmente mirata a sottoporre la massa dei cives ad un capo, non a coinvolgerli nella gestione dei loro interessi.

L’autorità pubblica, siccome frutto dell’individuazione dell’interesse pubblico,  (e la contraddizione non lo consente), non può avere fondamento gerarchico.

Naturalmente, con questo tipo di intelaiatura gerarchica, è sufficiente “impossessarsi” del capo, per imporre la propria volontà a tutto il gruppo sociale. Operazione, come la Storia ci insegna, estremamente facile per chi dispone del potere economico. Anche per questo motivo, il controllo di quest’ultimo – per inciso –  diventa così essenziale per la attuazione e protezione della democrazia.

Angelo Casella  http://www.uomoepotere.eu/

 

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