Possiamo ancora dire che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani? Possiamo cercare di capire perché, a fronte di un tasso di disoccupazione che in Italia si aggira su una media nazionale del 13 %, le aziende italiane continuino a chiedere al legislatore un numero sempre più alto di ingressi consentiti e una normativa più agile per regolarizzarne i flussi?
Forse potremmo giustificarlo in tanti modi, ma non potremmo comunque spiegare la schizofrenia della dicotomia immigrati/mercato del lavoro se non ci depurassimo da un’ottica esclusivamente poliziesco-emergenziale.
L’articolo prende le mosse dai dati emersi dal XV dossier statistico della Caritas, che da almeno un decennio rappresenta imprescindibile punto di riferimento per analisti, operatori del diritto e Questure. I dati emersi sono stati analizzati attraverso il prisma delle teorie economiche e sociologiche che hanno enucleato il ruolo della componente simbolica del lavoro nelle traiettorie di inserimento ed evidenziato la necessità del lavoro immigrato per il mantenimento della socializzazione al benessere dei cosiddetti paesi di “accoglienza”.
I dati emersi dal XV Dossier statistico Caritas- Migrantes
Secondo le previsioni Eurostat/Istat 2006, i giovani lavoratori italiani (15-44 anni) diminuiranno di 1.350.000 unità nel 2010 e di 3.209.000 unità nel 2020, mentre quelli più anziani (45-64 anni) aumenteranno di 910.000 unità nel 2010 e di 1.573.000 unità nel 2020.
In questa iperbole discendente va analizzato il peso crescente dei lavoratori immigrati nel mercato del lavoro italiano: 1 ogni 10 occupati è nato in un paese non appartenente all’Unione Europea (1.763.952 su 17.399.586 secondo la banca dati Inail). Il XV rapporto statistico della Caritas- Migrantes rileva che gli immigrati incidono per un sesto sul totale delle assunzioni annuali (727.582 su 4.557.871 complessive nel 2005) e che nel 2005 sono stati assunti per la prima volta nel mercato occupazionale italiano 173.000 nuovi lavoratori immigrati.
Dal punto di vista delle dinamiche inclusive, il dossier Ires- CGIL ha registrato lo scorso anno che il 77% degli inserimenti lavorativi dei neo-immigrati sia avvenuto tramite canali “informali”, in gergo denominati network. Grazie ai network, le catene migratorie possono crearsi e proseguire anche in condizioni di mercato “astrattamente” non favorevoli, e si indirizzano verso determinate località non solo in dipendenza di maggiori chances occupazionali, ma anche, e soprattutto, in relazione a “teste di ponte” create dai pregressi insediamenti di parenti, vicini, amici. Le mete dei progetti migratori dipendono dai modi con cui i contatti interpersonali plasmano le informazioni e collegano gli attori con le opportunità occupazionali, riuscendo, in un certo senso a determinare una sorta di abbattimento dei costi di transazione che gravano sull’incontro tra domanda di lavoro autoctona e offerta di lavoro immigrata. “ Ho potuto conoscere l’Italia grazie ai racconti di mio cugino, arrivato da voi ben dieci anni fa- racconta Kadim, senegalese trapiantato a Milano da circa due anni- e, una volta presa la decisione di lasciare il mio paese, ho deciso di venire qui perché avere un punto di riferimento aiuta, soprattutto nei primi momenti, quando non conosci nessuno”.
I settori nei quali si sono verificate le assunzioni nel 2005 sono per il 9,2% l’ agricoltura, per il 27,4% l’industria e per la restante quota i servizi. I settori prevalenti sono i servizi alle imprese (16,1%), le costruzioni (13,6%), gli alberghi e i ristoranti (11,9%), le attività svolte presso le famiglie (10,2%) e l’agricoltura (9,2%). I risultati rilevati confermano il fatto che non esiste un unico grande bacino, in cui domanda ed offerta di lavoro si incontrano, bensì una pluralità di sub-mercati, di nicchie e di interstizi, tra loro distinti e spesso non comunicanti. La disponibilità di forza lavoro immigrata, soprattutto nel settore dei servizi, rappresenta la soluzione alle carenze del sistema italiano di welfare e presenta una funzione propulsiva, riuscendo ad innescare una domanda di prestazioni personalizzate che non si sarebbe resa manifesta se non avesse trovato a chi rivolgersi o se avesse dovuto sopportare costi nettamente superiori. Mentre nel Nord Europa, infatti gran parte dell’assistenza agli anziani e dei servizi alle famiglie sono provvisti dal sistema pubblico (Germania: 0,49%; Francia: 0,37% ) non così in Italia dove solo lo 0,04% del Pil è destinato alle famiglie. “ Non posso più immaginare di organizzare la mia giornata senza Katrina- conferma Antonella, commercialista del vimercatese- mia madre, non più autosufficiente, si rifiutava di entrare in una casa di riposo. L’aiuto che Katrina mi da non è solo assistenziale, è umano”.
Dal punto di vista delle geografia urbana a Roma e Milano risiedono, rispettivamente, l’11,4% e il 10,9% della popolazione straniera e tutto lascia intendere che a breve verrà scalzato il primato che Roma ha detenuto fin dall’inizio dell’immigrazione. Del resto la Lombardia è già la prima regione, perché accoglie da sola quasi un quarto di tutta la popolazione straniera.
Nelle grandi città la composizione socio professionale della popolazione si differenzia, e le traiettorie degli individui tendono a divaricarsi, influendo sulle modalità di inserimento. La struttura professionale delle metropoli manifesta, infatti, una crescita dei segmenti estremi della gerarchia delle occupazioni.
Aumentano ad un capo le professioni qualificate, avvantaggiate dallo sviluppo delle transazioni economico-finanziarie, informative, culturali, che la globalizzazione dei mercati comporta. All’altro capo si espande, invece, la popolazione dei lavoratori impiegati nei servizi a bassa qualificazione, che comprendono al loro interno diverse componenti.Queste ultime sono le tipologie lavorative che la letteratura economica anglosassone ha sintetizzato con la formula delle 3D (dirty, dangerous. demanding), altrimenti detta delle 5 P (pesanti, pericolose, precarie, poco pagate, socialmente penalizzate.)
Il piano descrittivo della tipologia occupazionale va incrociato col tessuto di riferimento su cui si innesta: oltre il 70% dei giovani italiani arriva al diploma di scuola secondaria e mostra un’elevata socializzazione al benessere. Secondo Emilio Reyneri, professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università degli Studi Milano Bicocca, autore de Le politiche per l’inserimento degli immigrati, “questo traguardo, nella consapevolezza dei giovani e delle loro famiglie, plasma delle aspettative, delle immagini del lavoro, delle aspirazioni che non trovano più un referente adeguato nell’occupazione manuale, esecutiva, modesta, pesante, faticosa che tuttavia è ancora diffusa nei nostri sistemi produttivi.” Nella corsa verso una società della conoscenza l’offerta di lavoro corre più rapidamente della domanda: chi cerca lavoro ha introiettato molto di più del sistema produttivo reale l’idea che il lavoro di domani sia un lavoro pulito, dignitoso, latu sensu impiegatizio. La scarsa mobilità sociale intragenerazionale della società italiana può influire negativamente sulla propensione ad accettare occupazioni manuali e operaie, stante il timore di restare intrappolati nelle fasce basse del mercato, in base ad un temuto deterioramento delle conoscenze scolastiche. “ Quando pubblichiamo le offerte di lavoro se inseriamo la parola “pulizia dei locali” siamo matematicamente certi che pochissimi italiani risponderanno agli annunci- mi dice il direttore di un cinema multisala della Brianza- se non fosse per gli immigrati nei periodi di festa non potremmo nemmeno essere coperti”. E’ in atto, in altri termini, una forma di sopportazione della condizione: la forza lavoro disoccupata italiana, infatti, preferisce, finchè può e dove può, vivere consumando le risorse familiari disponibili, anziché accettare condizioni di dequalificazione sociale. Secondo Livraghi, economista dell’Università degli Studi di Bologna, autore de La coesistenza di disoccupazione e immigrazione e il comportamento dei lavoratori residenti in Italia, la “carenza relativa di lavoro”ovvero “la mancanza di lavoro in certi settori e con determinate caratteristiche professionali anche in presenza di sufficiente quantità di lavoro complessivamente disposta a lavorare in un dato sistema economico” determina il mismatch dell’incontro domanda offerta tra aziende e lavoratori italiani.
E’ così che si apre questa forbice sempre più accentuata tra la disponibilità dell’offerta di lavoro e il concreto profilo della domanda: in questo spazio, in questa carenza relativa di lavoro, si colloca il lavoro immigrato.
Il dato socio-economico trova conferma empirica nel fatto che, secondo una ricerca di Unioncamere e della Fondazione Ismu, già nel 2003 il fabbisogno occupazionale delle aziende rivolto agli immigrati è stato pari a 14.900 unità sulle 714.000 richieste complessive.
Eppure come attestato dal XV Dossier Carita- Migrantes, gli immigrati hanno un livello di istruzione comparativamente più alto rispetto agli italiani.
Secondo Natale Forlani, amministratore delegato Italia Lavoro, autore de Tipologie di lavoro degli immigrati: strategie per l’incontro tra domanda e offerta, “interviene nella scelta, dal versante degli immigrati, una prospettiva di provvisorietà e di mancanza di radici denominata soujorning: il tipo di lavoro conta poco perché resta slegato dall’autopercezione dell’identità sociale. Da questo punto di vista, gli immigrati vivono una sorta di identità sociale dislocata, per molti di essi le aspirazioni continuano ad avere come parametro di riferimento i Paesi di esodo.”Persino quelli che non hanno avuto sufficienti opportunità formative, cercano di recuperare e sono 120.000 gli adulti iscritti ai corsi di educazione per adulti (un quarto del totale degli iscritti).
Così come avviene in tutta Europa, dal punto di vista retributivo gli immigrati, guadagnano meno dei loro colleghi del Bel Paese. Come risulta dalla banca dati dell’INPS: le loro retribuzioni sono mediamente pari alla metà di quelle degli italiani. Il timore paventato da parte del mondo economico e politico di ricadute sui salari dei lavoratori italiani non ha trovato conferma nei dati statistici.
Analisi recenti hanno, infatti, evidenziato come fenomeni di spiazzamento e di indebolimento del mercato del lavoro siano verosimili in condizioni di domanda di lavoro immutata: ma l’assunto cha la domanda di lavoro rimanga immutata al cambiare dell’ammontare complessivo della popolazione presente è del tutto privo di fondamento, dal momento che gli immigrati sono essi stessi portatori di domanda aggiuntiva di beni e servizi. I dati registrati dalla Caritas in collaborazione con il CNEL fanno, infatti, emergere una componente dinamica nel mercato del consumo. Il 91% degli immigrati ha il cellulare, l’80% possiede il televisore, il 75% invia rimesse in patria, il 60% ha un conto in banca, il 55% è proprietario di un’autovettura, il 22% ha il personal computer. Gli immigrati incidono per il 5,3% sul totale dei titolari di patente automobilistica (1.890.000 complessivamente, di cui 330.000 nuovi acquisitori nel 2005, un quarto di tutti gli iscritti nello scorso anno alla scuola guida).
Dal dossier della Caritas-Migrantes, emerge, infine, un dato crescente di forme di autoimprenditorialità: sono titolari d’azienda 130.969 cittadini stranieri (quindi, non solo nati all’estero, condizione che si verifica anche per un certo numero di italiani rimpatriati). Gli imprenditori immigrati, aumentati del 38% rispetto al 30 giugno 2005, sono concentrati nei settori del commercio e dell’edilizia e sono caratterizzati dal crescente coinvolgimento delle donne. L’incidenza del lavoro autonomo sul totale dei permessi, che è in media è del 7%, è più alta in alcuni contesti territoriali (Nuoro 25,2% e Sardegna 20,2%, Calabria 12,7%, Firenze 13,1% e Prato 12,0%, Toscana 9,8%) e per alcuni gruppi nazionali (Senegal 19,3%, Egitto 11,9%, Algeria 10,5%, India 7%). Si tratta prevalentemente di “unità economiche di piccole dimensioni in cui tutti coloro che vi lavorano appartengono allo stesso gruppo etnico”. Particolare rilevo assume l’economia etnica: essa rappresenta l’altra faccia della medaglia rispetto alla discriminazione: è la capacità di sfruttare la diversità e la propria prevalentemente cultura al fine di trarne profitto economico. La particolarità del caso italiano risiede nel fatto che il mercato di riferimento non esaurisce il suo orizzonte di riferimento nei connazionali presenti in Italia ma si rivolge agli italiani stessi.
Nell’attesa che il legislatore acquisti piena consapevolezza della oggettiva necessità del lavoro immigrato per il mantenimento dell’elevata socializzazione al benessere, sia esso sociale o economico, humiles laborant, ubi potentes dissident.
Dafne Anastasi (giurista)