La Costituzione italiana, madre del riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni individuo, è stata trasformata, secondo la prospettiva teorica dell’Autrice, in un “fisarmonica”: la si può comprimere e rilasciare a seconda del momento storico e a seconda di chi necessiti di un comodo ombrello protettivo per arginare la “deriva” del riconoscimento dei diritti. Questa la chiave per riflettere sulla dibattuta questione delle “coppie di fatto” in Italia e sulla perimetrazione dei ruoli Stato-Chiesa, alla luce delle esternazioni fatte dalle gerarchie ecclesiastiche e delle supine acriticità di un Parlamento che ha paura di guardare in faccia i mutamenti sociali e decidere sulla vita reale di migliaia di persone.
Nella storia legislativa di un paese si propongono ciclicamente questioni che abbracciano registri morali, risposte storiche, ingerenze sovranazionali. Una di queste è quella sul riconoscimento delle coppie di fatto. Come tutte le questioni che si propongono di regolare macrosistemi essa non può non partire da una pregiudiziale: quale ruolo può e deve avere la politica nella storia di un paese? Deve essere un specchio dei mutamenti sociali intervenuti? Deve essere un freno al cambiamento sociale? Deve essere giudice dei comportamenti? Mutuando dal linguaggio scientifico: se l’evoluzione di un paese è una retta in espansione, la regolamentazione di essa può fermarsi a un punto?
Le risposte a queste domande non hanno forma diretta bensì sono rinvenibili nei comportamenti concludenti e nelle argomentazioni che i detrattori utilizzano per sostenere l’inutilità o la “non prioritaria importanza”di una legge sulle coppie di fatto.
La prima è di carattere fenomenico. Viene negata, apertis verbis, che la presenza diffusa su territorio nazionale di un consistente numero di copie di fatto sia un elemento di per sé meritevole di tutela giuridica. La sua componente “irrisoria” e “capricciosa” viene ricavata a cuntrariis dalla superiorità numerica delle famiglie tradizionali rispetto ad essa.
Fermo restando che i fenomeni in evoluzione non possono prescindere da una cornice spazio-temporale di riferimento si potrebbe obiettare che il punto dal quale diramare le analisi è l’evoluzione in percentuale. Negare miopisticamente l’iperbolico aumento degli ultimi anni significa abdicare al ruolo di rappresentatività che una classe politica ha il potere-dovere di esercitare nei confronti della cittadinanza tutta, senza limitarsi agli interessi diffusi “sentiti” dal suo elettorato di riferimento. Ma anche qualora, e non è questo il caso, si trattasse di diritti di una minoranza della popolazione italiana, in tema di giuridicizzazione delle libertà fondamentali quali sono i criteri valevoli erga omnes per escluderne a priori la meritevolezza?
La leva giuridica utilizzata per negare il riconoscimento delle coppie di fatto si presta a una serie di riflessioni che investono l’interpretazione finalisticamente orientata della Carta Costituzionale e il comportamento di chi, di queste argomentazioni, si è fatto nume tutelare: il Vaticano.
I detrattori alla normazione legislativa utilizzano come norma di sbarramento l’art. 29 Costituzione a rigore del quale “ La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Eppure a chi si trincera dietro argomentazioni di carattere giuridico non dovrebbe sfuggire che la Costituzione italiana è un architettura di principi, un mosaico di norme in cui ciascun articolo ha ontologica rilevanza e motivo di esistenza che non si presta a operazioni di estrapolazione intellettuale. Si finge di ignorare che “le norme andrebbero interpretate le une per mezzo delle altre.” e che il riconoscimento della famiglia all’art. 29 non può prescindere dal riconoscimento del singolo nelle formazioni sociali dell’art. 2 Cost. e dal principio di eguaglianza formale e sostanziale dell’art. 3 Cost.
Il risultato di questo strabismo interpretativo è un’operazione chirurgica che coglie gli effetti ad exludendum e ignora l’ineliminabile componente sistematica sottesa alla Carta Costituzionale.
Le riflessioni sub iuris non finiscono qui. Andando indietro con la memoria storica si coglie la portata omissiva che investe direttamente i rapporti tra Stati e reciproche sovranità.
Si dimentica spesso di ricordare che una regolamentazione legislativa tra Italia e Santa Sede esiste ed ha valore di diritto internazionale. Bisogna risalire al 1929 con la stipulazione dei Patti Lateranensi e al 1984 con la stipulazione del Concordato. Le architravi contenute nei due accordi erano state individuate e poi sancite nell’ottica di un equo contemperamento degli interessi. L’Italia, stato democratico e aconfessionale, avrebbe concesso al Vaticano, Stato teocratico e non democraticamente rappresentativo, tutta una serie di privilegi, tra cui l’8 per mille alla Chiesa cattolica, l’ora di religione a scuola, l’esenzione dal pagamento dell’ICI per gli immobili di proprietà ecclesiastica, in cambio di una sola limitazione: la non ingerenza nella vita politica del paese.
Naturalmente non sempre i principi sanciti su carta, seppur intestata, ricevono applicazione, sovente la Corte Costituzionale è stata chiamata a intervenire per diramare controversie interpretative sui rapporti tra laicità e libera manifestazione del pensiero del Vaticano e dei suoi organi di stampa. La laicità è stata, in particolare, ribadita da una storica sentenza della Corte, la n. 203 del 1989 a tenore della quale “ Laicità dello Stato implica non indifferenza verso il dettato ecclesiastico, ma garanzia per la salvaguardia della libertà di religione e il pluralismo confessionale.”
Eppure basta leggere le prime pagine dei giornali per notare come garanzia e libertà confessionale siano solo una chimera. Sarebbe quantomeno arduo sostenere che le esternazioni da parte clericale non abbiano una scansione temporale connessa ai lavori del Parlamento, non abbiano precisi interlocutori politici, non abbiano il sapore della difesa a oltranza. E ci si chiede: quando? In quale momento della storia la Chiesa ha perso i suoi connotati identitari di inclusione e universalità della pietas per ergersi a difensore di un santuario del potere? Che fine ha fatto il messaggio di eguaglianza tra gli uomini emanato dalla predicazione evangelica? Che fine ha fatto l’amore?
L’amore per un uomo, l’amore per una donna, l’amore per il diverso.
Il paradigma dell’esclusione si congiunge fatalmente col paradigma della perversione. La scienza ha speso fiumi d’inchiostro per sgombrare il campo da pericolose patologie della psiche per ribadire semplicemente il primato cromosomico. Invece, fino a ieri alti prelati giustificavano la violenza a due donne omosessuali definendola la “risposta a una provocazione subita”.
Tuttavia la radice del problema non è nella causa, in chi esterna, seppur inopportunamente e illegittimamente i suoi dettami, ma nell’effetto, la supina e acritica recettività di parte della nostra classe politica, lontana da una civica e civile emancipazione.
Eppure il riconoscimento e l’accettazione sociale passano inevitabilmente attraverso
l’ esteriorizzazione della propria identità e la pubblicizzazione dei propri diritti. Diritti che riguardano aspetti rilevanti della convivenza, dall’assistenza reciproca tra i conviventi alle decisioni da prendere in caso di malattie di uno di essi, alla successione ereditaria, alla reversibilità della pensione, al pagamento degli alimenti in caso di separazione, all’uso comune dell’abitazione, ai diritti e doveri verso i figli e la loro educazione.I timidi pionieri del riconoscimento ribadiscono insistentemente che la roccaforte non corre pericoli. La tecnica legislativa adottata non è quella dell’equiparazione toutcourt tra l’istituto famiglia tradizionale e l’istituto coppia di fatto bensì quello del riconoscimento dei diritti dei singoli all’interno della coppia.
La perimetrazione del diritto serie B presta il fianco al valzer dei bizantinismi, in cui noi italiani, burocrati e gerontocratici, non siamo secondi a nessuno. Niente paura: convivenza al posto di famiglia. Non sarebbe opportuno cautelarsi privatisticamemte: meglio contratti o intese? E a questo punto, non sarebbe il caso di fare una bella scrittura privata? Ma se si estendono i diritti si rischia la congestione dei ricorsi: non sarebbe meglio riconoscere solo esigenze?
La questione delle coppie di fatto è emblema della discrasia tra essenza e percezione: la strada per il riconoscimento dei diritti è la strada per cucire la separatezza tra il paese reale e il paese immaginato. L’Italia deve scegliere se essere un paese che rispetta le differenze e che, nutrendosi di esse, riesce a riconoscere che parità non è sinonimo di uguaglianza.
Dafne Inastasi (giurista)