di Marina Montagna
"Anime fiammeggianti
attonite
squarciato il velo della cecità"
(Brace – CSI)
"In nome di un diritto all’informazione, sovente frainteso, veniamo continuamente aggrediti da immagini brutali che, per la loro stessa sovrabbondanza numerica, hanno finito con l’anestetizzare le nostre coscienze, ci hanno assuefatti e resi indifferenti a barbarie da profondo Medioevo che la nostra civiltà pensava di essersi lasciate alle spalle per sempre.
La nostra capacità di discernere tra "fiction" e realtà sembra ormai irrimediabilmente compromessa, perciò ogni sera possiamo cenare tranquillamente mentre sugli schermi dei nostri televisori a vallettine ammiccanti che esibiscono esagerati seni siliconati o a casalinghe sorridenti entusiaste di un nuovo detersivo si alternano scene di stragi, decapitazioni e sgozzamenti vari.
Lo speaker di turno di un qualunque telegiornale ci racconta, con professionale distacco e con dovizia di particolari, di una madre che ha ucciso il proprio bambino, di un tizio che per futili motivi ha massacrato, facendoli a pezzi, i propri vicini e così via. Storie di ordinaria follia. E noi, dopo un attimo – soltanto un attimo – di stupore e smarrimento, voltiamo pagina e con naturalezza riprendiamo a mangiare la pastasciutta nel piatto.
L’orrore è entrato a far parte della nostra quotidianeità.
Ma forse nel profondo di ciascuno di noi c’è ancora, se vogliamo scoprirla, quella "pietas", quella compassione che ci permette di sentire come proprio il dolore dell’umanità, ossia di quell’unico fiume di cui tutti siamo acqua.
E allora come non piangere dinanzi all’immagine di un esserino che dovrebbe essere un bambino di pochi anni e che invece sembra un passerotto denutrito, con la pelle grinzosa che pende dalle ossa, precocemente invecchiato e senza alcuna prospettiva di futuro? Uno dei tanti figli di un dio minore e distratto, abbandonati in balia dell’arroganza e della sopraffazione dei più forti.
Ma l’immagine di questo bambino è purtroppo emblematica della catastrofe umanitaria che si sta consumando in Darfur, la regione del Sudan dove è in atto quello che sempre più sta assumendo le proporzioni di un vero e proprio "genocidio" .
La cause del conflitto, il cui inizio risale al 2003, sono molteplici e complesse; tra queste, in primo luogo, la contrapposizione tra la popolazione di origine araba e quella di origine africana. Alcuni gruppi ribelli quali lo JEM (Movimento Giustizia e Uguaglianza), l’SLM (Movimento per la Liberazione del Sudan) e il FLD (Fronte di Liberazione del Darfur) accusavano infatti il governo di favorire le etnie arabe e di opprimere invece quelle non arabe.
In una prima fase, negli scontri con tali gruppi, che sferravano attacchi contro obiettivi quali stazioni di polizia, avamposti e convogli militari, con la tattica dei raid "colpisci e scappa", l’esercito riportò numerose e brucianti sconfitte. Il governo allora, sentendosi umiliato, decise di cambiare strategia trasferendo l’azione di guerra nelle mani dell’intelligence, dell’aeronautica e dei Janjaweed.
Attualmente lo scontro è appunto tra i Janjaweed (i "diavoli a cavallo"), miliziani reclutati tra le tribù nomadi dei Baggara e la popolazione non Baggara composta principalmente da tribù dedite all’agricoltura. Il conflitto però non ha una connotazione religiosa poiché quasi tutti gli abitanti del Darfur sono musulmani così come lo sono anche i Janjaweed e i leader governativi di Khartoum.
Hadja e Fatmah, due giovani donne sopravvissute ad uno dei tanti massacri perpetrati nei diversi villaggi presi d’assalto dai "diavoli a cavallo", hanno raccontato a Bernard Henri Levy: "I janjaweed, in genere, arrivano all’alba. Gettano torce nelle capanne. Sfondano a colpi di mazza le grandi giare di terracotta da cui fuoriescono fiumi di miglio o di saggina a cui poi appiccano il fuoco. Girano intorno ai roghi con urla terribili. Strappano i bambini dalle braccia delle madri per gettarli vivi tra le fiamme. Violentano le donne, le picchiano, le sventrano. Riuniscono gli uomini e li finiscono con i mitra. Infine, quando tutto è bruciato, quando nel villaggio non restano che rovine sparse e fumanti, raggruppano gli animali impauriti e li trascinano verso il Sudan". Di frequente gli attacchi dei "diavoli a cavallo" sono supportati da massicci bombardamenti aerei; questa circostanza tradisce la regia occulta da Khartoum.
Il governo del Sudan ufficialmente ha sempre sostenuto che le spietate "colonne infernali" dei janjaweed sono delle orde di banditi sulle quali non ha alcun controllo mentre in realtà ha fornito loro armi, addestramento e assistenza.
Quanti siano ad oggi le vittime del conflitto è difficile dirlo con esattezza, anche a causa dell’atteggiamento delle autorità sudanesi che cercano di nascondere la gravità della situazione, impedendo le attività investigative delle varie organizzazioni internazionali. Da più parti si stima però che i civili morti possano essere circa 400.000 e che almeno altri 2 milioni di persone abbiano dovuto abbandonare le proprie case. Di questi disperati in fuga i più fortunati sono quelli che, dopo una marcia di almeno 100 chilometri, hanno trovato riparo in uno dei dodici campi profughi allestiti dall’ONU nella zona di confine tra Sudan e Ciad.
In questi campi, che ad un occidentale potrebbero sembrare un inferno, almeno ci sono acqua potabile e cibo in quantità sufficienti ad assicurare la sopravvivenza. A fronte però dei 230.000 che in qualità di rifugiati ricevono un minimo di cure e assistenza, vi sono, secondo le agenzie ONU, 4 milioni di persone che tentano di sopravvivere in condizioni insostenibili, che soffrono e muoiono letteralmente di fame.
Le varie organizzazioni umanitarie, che hanno raccolto fra i rifugiati testimonianze raccapriccianti, denunciano "gigantesche e sistematiche violazioni dei diritti umani e gravi strappi alla legge internazionale".
Per questo da molti è stato invocato l’intervento dei caschi blu dell’ONU ma il governo del Sudan, spalleggiato dalla Cina, suo principale alleato all’interno del Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che un eventuale contingente ONU sarebbe considerato un invasore straniero.
E l’Unione europea? dinanzi alla tragedia del Darfur cosa ha fatto e cosa sta facendo l’Unione europea? Finora poco o niente. Da qui la comprensibile indignazione e il conseguente appello che alcuni intellettuali fra i quali Umberto Eco, Dario Fo, Gunter Grass, Vaclav Havel e Bernard Henri Levy, hanno sottoscritto e rivolto ai leader dell’Unione.
"Come osiamo noi europei celebrare i cinquant’anni dell’Unione, quando poche miglia più a sud i più deboli e indifesi sono uccisi in Sudan? Nata dall’atrocità per scongiurare altre atrocità, l’unione europea non trova parole da pronunciare né principi ai quali richiamarsi, nessun provvedimento per prevenire i massacri in Darfur? Dovrà ripetersi la viltà di Srebrenica? Cosa celebriamo dunque? La nostra fragile unità politica? Le vane prese di posizione della nostra classe politica? L’impotente inettitudine delle nostre burocrazie? L’Europa che consentì Auschwitz e ha fallito in Bosnia non deve tollerare lo sterminio in Darfur…. L’Europa è più di una rete tra classi dirigenti, più di un club economico da primo mondo, più di un’escrescenza burocratica. E’ un’eredità culturale che sostiene una fede condivisa nel valore e nella dignità dell’essere umano".
Squarciato il velo della cecità
e dell’ignoranza chi sa e resta inerte si fa complice dei massacratori. L’Europa, dunque, se vuol continuare a porsi come "faro di civiltà" non chiuda gli occhi dinanzi alla tragedia del Darfur.