a cura di Dafne Anastasi
Il consumo critico di Addiopizzo: quando l’economia va a braccetto con la legalità.
Economia, lotta alla mafia, socialità. Segmenti apparentemente distinti possono avere un punto d’intersezione in grado di incidere sulle dinamiche di un contesto economicamente depresso come quello siciliano.
Tutto nacque da un’idea, semplice eppur rivoluzionaria: creare la circolarità tra le imprese che decidono di non pagare il pizzo e le scelte dei consumatori.
Il mattino del 29 giugno 2004, su centinaia di piccoli adesivi listati a lutto attaccati dappertutto per le strade del centro, Palermo ha letto per la prima volta questo messaggio: UN INTERO POPOLO CHE PAGA IL PIZZO È UN POPOLO SENZA DIGNITÀ. Nato come piccolo e fragile segno di implicita resistenza è diventato un movimento aperto, fluido e dinamico, espressamente apartitico e volutamente monotematico. Da quella notte molte cose sono state fatte e molte altre se ne faranno.
Addiopizzo ha creato un manifesto del cittadino-consumatore per la legalità e lo sviluppo, conta oggi 200 nominativi di imprenditori che hanno dichiarato di non pagare il pizzo e 8844 cittadini-consumatori che li sostengono coi loro acquisti, dimostrando che la società civile è più avanti della politica.
Questi ragazzi hanno capito che la responsabilità della situazione degenerativa in cui i siciliani vivono non è solo dei commercianti, ma di tutta la società di cui anch’essi fanno parte. Parlando a viso aperto di pizzo hanno rotto un tabù, ma hanno anche dato una possibilità di scelta al consumatore che non vuole "implicitamente" finanziare le casse di Cosa Nostra.
Si chiama consumo critico ed è la capacità di favorire la sinergia motivazionale tra standard etici e finalità economiche. Il saggio che segue è stato presentato a Palermo al Seminario Internazionale "Etica generale ed etiche applicate" il 24 e 25 novembre del 2006.
La teoria degli stockholder e le preferenze morali dei consumatori
in un contesto caratterizzato dall’ingerenza della criminalità organizzata nelle attività economiche.
di Lorenzo Palumbo
La teoria degli stockholder à la Friedman individua nella massimizzazione del profitto per i proprietari l’unico scopo e la sola responsabilità dell’impresa, escludendo quindi dallo scopo dell’impresa altre cause di natura sociale, ambientale o etica.Secondo tale teoria la responsabilità etica dell’impresa è addirittura sovversiva tanto che: "Il manager ha solo il dovere di amministrare le risorse della società per accrescere la remunerazione del capitale degli azionisti. Ma se i manager impiegano questo denaro per contribuire a cause sociali che essi ritengono moralmente pregevoli, e ciò rappresenta un costo addizionale per l’impresa, allora in effetti ciò che i manager fanno è imporre una tassazione agli azionisti, senza che nessuno abbia conferito loro l’autorità di farlo. Il compito di perseguire cause sociali moralmente pregevoli dovrebbe essere lasciato al governo e alla pubblica amministrazione che operano sulla base di un’autorità ricevuta dall’elettorato. Quando gli azionisti assumono il manager il mandato non include la finalità sociale cosa che invece è prevista nel caso del governo. Così il manager abusa del potere decisionale violando la sovranità degli azionisti" (1). La teoria non è obsoleta, posto che ancora oggi questo argomenti informa l’agire economico delle imprese a scopo di lucro. Ora è anche vero che non tutti gli economisti sono d’accordo sul fatto che tale teoria sia sostenibile, ma certamente nessun economista affermerebbe che l’impresa non debba creare valore per gli azionisti, seppur ammettendo che le modalità di creazione di quel valore debbano attenersi ad un qualche standard etico e di responsabilità sociale delle imprese (2). Tuttavia, nella realtà, come dice Van Parijs, non c’è alcuna armonia prestabilita tra gli standard etici e il massimo dei profitti e, nel caso ci sia una seria tensione, i primi tendono a venire sacrificati al secondo (3). Ma poniamo per ipotesi che la teoria degli stockholder sia valida, anche se solo sul piano della razionalità economica, e pertanto accettiamo l’assunto secondo il quale l’applicazione di standard etici all’agire delle imprese si traduce in una limitazione (la tassazione di cui parla Friedman) della legittima pretesa della proprietà alla remunerazione del capitale investito.
Se la teoria degli stockholder, data come valida in un contesto "normale", si applica ad un contesto economico caratterizzato dalla presenza diffusa di organizzazioni criminali, l’equazione etica=tassazione perde ogni validità.
Da una riflessione solo teorica, ma che prende spunto da un caso reale, sembrerebbe che la scelta di alcune imprese di operare secondo standard etici, non solo non equivale ad una tassazione dei proprietari, ma, al contrario, quella scelta diventa l’unico strumento per proteggere l’investimento proprietario dalla voracità delle organizzazioni criminali, quando non è funzionale finanche alla crescita dei profitti.
Sottopongo alla riflessione la vicenda del Comitato Civico Addiopizzo che ha suscitato grande attenzione nei media e nell’opinione pubblica nei mesi scorsi. Il Comitato, dopo una serie di iniziative pubbliche a cui hanno preso parte migliaia di persone presenta alla collettività due liste (4):
– una prima lista di 127 attività imprenditoriali operanti nel territorio della provin
cia di Palermo che dichiarano di non essere disposti a pagare il pizzo al racket delle estorsioni;
– Una seconda lista di 8092 cittadini-consumatori che si impegnano con la propria firma ad acquistare prodotti e servizi da quelle 127 imprese (pizzo-free).
Ad una prima osservazione del fatto, si coglie che alcune imprese adottano una forma di resistenza al racket e, a fronte di questo, gli stakeholder-consumatori, sull’onore, offrono a quelle imprese la loro
preferenza morale. Ma ad un’analisi più attenta della questione emergono alcune considerazioni che ci portano a conclusioni opposte a quelle della teoria degli stockholder.
1) In primo luogo, una verifica empirica della performance delle 127 imprese in termini di aumento della redditività mostrerebbe che vi è stato un miglioramento in termini di aumento della redditività e ciò, al di là del quantum fatturato, se non altro perché le imprese hanno ampliato il portafoglio clienti: ai clienti abituali (senza preferenza morale), si sono aggiunti quelli con preferenza morale.
2) Altresì, si può affermare che la preferenza morale accordata dai 8092 cittadini alle imprese pizzo-free costituisce un indicatore di fiducia per i dirigenti delle imprese in quanto, la percezione della modificazione delle scelte di consumo di tanti consumatori, li spinge a sviluppare la credenza positiva circa la modificazione degli atteggiamenti del pubblico in senso critico e morale sul fenomeno del racket. Ai fini di un’adesione a comportamenti socialmente responsabili e improntati alla legalità, questa credenza rafforza le motivazioni di chi intraprende che, pur operando in vista di un guadagno, persegue fini etici di resistenza al racket e di adesione alle norme legali. Questo risultato si ottiene non attraverso un’adesione generica alle norme, ma attraverso il canonico meccanismo attraverso il quale l’impresa risponde al bisogno di una fetta del mercato che adotta preferenze morali nelle scelte di consumo.
3) Infine, la scelta di sottrarsi al racket, pur implicando un rischio in termini di sicurezza, produce un aumento della redditività dell’impresa perché viene meno la sistematica sottrazione di risorse economiche dell’impresa, che incide drasticamente sui margini di guadagno dei proprietari.
Ergo, l’opzione etica dell’impresa non solo non determina l’imposizione di una tassazione agli azionisti-proprietari, ma addirittura produce per costoro un vantaggio. Di contro senza una scelta di resistenza al racket, le imprese correrebbero tutti i rischi di distorsione del fine della massimizzazione del profitto in forza dei danni prodotti dall’intreccio determinato dal cedimento etico cadenzato in una sequenza progressiva e devastante di paura – pagamento del pizzo – diminuzione della redditività – fine dell’attività economica o cessione a terzi, in alcuni casi a fini di riciclaggio.
Pertanto, dato per valido che lo scopo dell’impresa è la creazione di valore per i proprietari, in un contesto di diffusa criminalità economica, la teoria degli stockholder risulta infondata in quanto:
1) non si da in nessun caso una relazione diretta tra scelta etica dell’impresa e tassazione illegittima degli azionisti-proprietari;
2) l’asset reputazionale costruito dall’impresa in termini di scelte etiche viene premiato dalla preferenza morale dei cittadini-consumatori e questo si traduce in ricavo addizionale d’impresa e cioè di redditività per la proprietà.
Guardando prospetticamente la questione, se, per ipotesi, le preferenze morali dei cittadini-consumatori dovessero crescere, l’assetto allocativo delle risorse economiche dovrebbe cambiare in funzione della
trasformazione in senso etico delle scelte collettive dei consumatori.
Come a dire che le imprese dovrebbero necessariamente preoccuparsi di adeguare i propri processi produttivi e i propri prodotti alle preferenze morali degli stakeholder-consumatori che hanno un interesse anche di tipo morale nell’attività d’impresa. A tal punto, in ragione di ciò, l’impresa non potrà che sostenere anche con risorse economiche le scelte organizzative che hanno lo scopo di costruire un’immagine di fiducia con il pubblico, in cui gli apporti etici di credibilità e reputazione diventano determinanti ai fini commerciali e quindi ai fini del prelievo del surplus produttivo, cioè del profitto. Di contro, nel caso in cui non sia osservabile una tendenz
a alla crescita delle preferenze morali dei consumatori, dovremo concludere che le imprese saranno sempre più esposte alle minacce della criminalità organizzata. Come si vede l’esclusione dei fini etici dall’orizzonte dell’impresa, posta dalla teoria degli stockholder, è semplicemente controproducente per il perseguimento non primariamente dei fini etici (anche), ma soprattutto di quelli economici.
Per un altro aspetto vorrei sottolineare che la partita tra criminalità organizzata, mondo delle imprese e consumatori è giocata interamente in un contesto di ragioni che fanno capo all’etica e all’economia, e quindi non prioritaritamente alla legalità. In effetti, se la preferenza morale dei
consumatori è funzionale ad una maggiore capacità dell’impresa di produrre ricchezza, è lo stesso automatismo del mercato ad imporre alle imprese di adottare strategie organizzative orientate a soddisfare quelle preferenze, e questo non primariamente per ragioni di legalità, ma solo perché l’agente economico allinea la sua condotta alla natura dell’impresa che è quella di generare redditività dagli investimenti proprietari. In effetti, le preferenze morali in economia agiscono come leva di cambiamento delle scelte allocative dell’impresa per soddisfare i bisogni di consumo di un segmento di domanda critico e moralmente sensibile.
Ecco che, allora, le imprese altro non possono fare, al di là dell’adesione alle norme di legge, che adottare standard di comportamento improntati ad una qualche idea di responsabilità sociale. E quindi l’input è di ordine etico, la risposta corrispondente è squisitamente economica. La volontà di adempiere la legge è presente sia nella scelta dei consumatori sia nella risposta dell’impresa, ma questa non è decisiva sul piano motivazionale, e quindi la questione legale è rilevabile solo in termini di aumento
generalizzato dell’adesione degli operatori economici alle norme legali.
Per un altro verso, l’adozione di scopi di natura etica da parte dell’impresa non significa in alcun modo, come già detto, che il fine dell’impresa non è più la creazione di ricchezza, ma che, in particolare in
alcuni contesti economici come quelli caratterizzati da una forte presenza di criminalità organizzata, le imprese devono organizzare le loro attività tenendo ben presente che tra i fini economici e quelli etici vi sono, come ci ha insegnato Amartya Sen, straordinarie interdipendenze (5).
In tali condizioni la forza degli standard etici nelle tradizionali sfere di allocazione delle risorse dell’agire economico agisce su due versanti:
a) aumenta la redditività delle imprese,
b) ma nello stesso tempo migliora le prestazioni delle stesse sul piano etico e sociale. Questo significa che l’interdipendenza non è per nulla una pura illusione o peggio un danno per l’impresa, ma piuttosto un gran vantaggio; ma questo solo se l’impresa adotterà con convinzione gli standard etici evitando di considerarli come mezzo per un trattamento estetico, cioè senza un’adesione consapevole (6).
Se estendiamo l’osservazione alle altre pratiche di interferenza da parte dei gruppi malavitosi nella sfera dell’agire economico, attraverso le quali si consuma il drammatico rapporto tra economia delle imprese e criminalità organizzata, abbiamo conclusioni analoghe al caso del racket. Mi riferisco in particolare a fenomeni quali il finanziamento illecito, l’usura, la corruzione, la concorrenza sleale nei confronti dei quali l’impresa, che opera in zone ad alta diffusione e densità criminale è esposta con continuità. In effetti, se l’impresa sana, legale, eticamente orientata assume come criterio guida di sopravvivenza o di sviluppo il dettato della massimizzazione del profitto così come richiesto dalla teoria degli stockholder, non può, contrariamente a quanto sostenuto da questa teoria, fare a meno di utilizzare le risorse dell’impresa per concorrere al perseguimento di finalità etiche che nel caso specifico, come in quello precedente relativo al racket, non sono divergenti rispetto alle finalità economiche e quindi non costituiscono un costo per gli azionisti, ma, al contrario, accade che l’adozione di standard etici promuove la redditività dell’impresa. Al riguardo, non è un difficile esercizio dimostrare che è proprio il cedimento etico dell’impresa a produrre il mancato
perseguimento del fine dell’impresa, proprio perché produce una serie di distorsioni nel mercato e di danni all’imprenditorialità legale che si possono compendiare nel modo seguente:
1) il finanziamento illecito delle imprese a proprietà mafiosa (riciclaggio) viola le regole delle pari opportunità nella competizione, immettendo nel mercato imprese che non hanno costi di approvvigionamento finanziario;
2) la corruzione, in forza della disponibilità di denaro e della contiguità con alcuni ambienti politici, costituisce una forma di concorrenza sleale che mette in situazione di svantaggio le imprese non corruttrici;
3) il calo dei profitti dovuto alle estorsioni, che costituisce la vera tassazione alla legittima pretesa dei proprietari di avere remunerato il capitale investito, in uno con le inefficienze bancarie nelle pratiche di gestione del credito, sottopongono le scelte di finanza aziendale alla volontà della criminalità organizzata che attraverso l’usura tende progressivamente ad acquisirne il controllo.
In conclusione, sostengo che in via teorica si può affermare che l’applicazione di standard etici alle imprese, codici etici o altri standard di Accountability sociale, nel caso di contesti interessati dalla intrusione e dalla pervasività delle organizzazioni criminali nelle attività economiche, favorisca una sinergia motivazionale tra standard etici e fini economici (secondo uno schema stimolo-risposta) che rinforza e corrobora lo spirito imprenditoriale e tiene distante le imprese dall’interferenza criminale nelle sue varie forme.
Entrando nel merito del dibattito delle idee sui sistemi di regolazione dell’agire economico, si può affermare che anche le imprese a scopo di lucro operanti in contesti ad alto rischio di criminalità organizzata, devono prendere in seria considerazione il tema dell’interdipendenza dei fini etici con quelli economici, posto che attraverso l’adozione di standard etico-sociali nell’impresa progettati per rispondere alla preferenza morale degli stakeholder-consumatori, si consegue, per paradosso della teoria degli stockholder, una migliore redditività degli investimenti proprietari.
Note:
1. Milton Friedman, The social Responsability of business is to increase its profits in New York Times Magazine, 13 settembre 1970.
2. U.E.Libro verde per promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità Europee, Bruxelles 2001,p.7
3. Philippe Van Parijs, Il riflettore e il microfono. L’impresa deve e può essere socialmente responsabile? In Quaderni di Fabrica Ethica n. 1, Centro Stampa Giunta regionale, Firenze 2004, p.53
4. www.addiopizzo.org
5. Amartya Sen, Etica e economia, Laterza, Bari 2000, p.14
6. Guido Rossi, Il conflitto epidemico, Adelphi, Milano 2003
Saggio presentato al Seminario Internazionale "Etica generale ed etiche applicate": problemi e prospettive svoltosi a Palermo il 24 e 25 Novembre 2006.